Tra i sogni vecchi che ci hanno comunicato nel corso degli ultimi mesi uno dei più ricorrenti, tanto da essere considerato un incubo, sembra essere stato quello della ricostruzione del vecchio teatro. Un sogno-incubo che è diventato una questione da risolvere “a sentimento”, irrazionalmente, sotto la spinta insistente quanto banale di una esigua minoranza chiassosa. Ma ora la questione, ovvero il problema, sembra essere risolto, dato che il “Protocollo d’intesa dedicato al centro storico”, firmato dal Comune e da diversi enti, comprende anche l’apertura del cantiere del Galli entro il 2009, e che il sindaco dichiara che “le risorse non sono un problema”. Non mi piace rompere le uova nel paniere a nessuno, ma vorrei – come la “maggioranza silenziosa” dei riminesi – che la questione fosse affrontata con un po’ più di razionalità.
Rimini ha il rudere di un teatro ottocentesco che la guerra ha distrutto a metà. Come ci si comporta con un rudere? Lo si restaura, naturalmente, se ha un valore storico. E cosa significa restaurare un rudere di valore storico? Significa ripulirlo, consolidarlo, restituirgli la dignità formale e il valore di testimonianza storica. La ragione (e la buona prassi) appunto questo obbligherebbe a fare, sbarazzando quel che resta della costruzione originaria del teatro dalle superfetazioni recenti, ma astenendosi da rifacimenti, ricostruzioni e via dicendo, in modo che il rudere possa ritornare ad essere testimone di sé e delle sue e nostre vicende: testimone di un grande edificio neoclassico legato ad un momento di presunzione della borghesia locale e ad una fase importante del costume culturale (la costruzione ottocentesca), di un evento drammatico che ha condizionato la città nell’ultimo secolo (la distruzione dovuta alla guerra), del lungo disinteresse della cittadinanza per un costume e una forma d’arte ormai superati (la mancata immediata ricostruzione).
Chi lo vorrebbe ricostruire ora afferma di essere amante della storia. Forse bisognerebbe riaprirlo un discorso sulla storia e sulle funzioni delle testimonianze materiali della storia: che, comunque, non si ferma all’ottocento. I fatti che hanno caratterizzato la storia riminese negli ultimi due secoli – sembra inutile ripeterlo – sono la fondazione dello Stabilimento Bagni (1843) e la distruzione subita dalla città durante la seconda Guerra mondiale (1943-1944). Di entrambi sono scomparse quasi tutte le tracce e ormai non ci sono più elementi materiali che diano conto né del rapido sviluppo della città, passata da insignificante centro periferico a capitale del turismo grazie all’industria della vacanza e dei bagni di mare, né della distruzione quasi completa della città dovuta ai bombardamenti, seguita da una ricostruzione comprensibilmente affannata e tumultuosa quanto miracolosamente rapida.
Il rudere del teatro è l’ultima testimonianza davvero significativa della “Cassino dell’Adriatico” (un fatto davvero capitale, di cui i vecchi si sono dimenticati e i giovani nulla sanno); una volta eliminato quel baraccone-palestra che lo soffoca e una volta restaurato, potrebbe costituire una solenne, anche se parziale, testimonianza di ciò che è accaduto negli ultimi due secoli a Rimini e un permanente monito contro la guerra. E forse potrebbe avviare la riqualificazione di una piazza-parcheggio-mercato un po’ informe e casuale, e contribuire alla valorizzazione del Castello di Sigismondo, che è pur sempre un capolavoro del massimo interesse.
Ma, si dirà, e il “vero” teatro? Questo è un altro discorso. A Rimini i teatri non mancano, sia pubblici che privati. Manca effettivamente un teatro per la rappresentazione delle grandi opere liriche ottocentesche. Ma servirebbe davvero, e a quali costi ‘permanenti’ (cioè di gestione e di operatività, e non solo di costruzione)? Comunque si tratta davvero di un discorso diverso, da tenere ben distinto dall’altro. Se un teatro “ottocentesco” servirà proprio, si provveda pure a realizzarlo nelle forme che verranno ritenute più opportune, e soprattutto nel posto giusto, cioè dove potrà essere al servizio di tutta la popolazione della città e, almeno, della provincia: un posto che non potrà certo essere l’ormai inagibile centro cittadino.
Pier Giorgio Pasini