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Quartetto di controtenori

Una scena di Giulio Cesare ©Zani-Casadio

Inaugurata la stagione lirica all’Alighieri di Ravenna con Giulio Cesare di Händel diretto da Ottavio Dantone 

RAVENNA, 17 gennaio 2025 – Adesso è diventata una moda. I ruoli che fino a poco tempo fa erano affidati a voci femminili ‘en travesti’ vengono interpretati perlopiù da controtenori: mai così numerosi come oggi e, talvolta, pure bravissimi. Senza dubbio ne guadagna la verosimiglianza scenica e filologicamente sarà pure una scelta più corretta, anche se non sempre riesce a scongiurare il rischio di una certa meccanicità nel canto (si tratta di voci inevitabilmente artificiali): monotonia evitata, invece, dalla vastissima gamma di vocalità femminili.

Il controtenore Filippo Mineccia (Tolomeo) e il soprano Marie Lys (Cleopatra) ©Zani-Casadio

Anche il titolo inaugurale della stagione lirica all’Alighieri di Ravenna – Giulio Cesare di Händel – si è adeguato a questa tendenza, con ben quattro controtenori su un totale di otto interpreti. Il compito di esaltare la magnificenza musicale della famosa opera è comunque toccato, ancora una volta, a Ottavio Dantone alla guida dell’Accademia Bizantina. Nella sua lettura, il direttore ha valorizzato la straordinaria varietà timbrica e la ricchezza di colori che Händel, nel 1724, affida a un’ampia varietà di strumenti – arpa, tiorba, viola da gamba, oboi, flauto e corno – in aggiunta agli archi, che contribuisce a imprimere icasticità ad ogni carattere; e la cura profusa sul versante orchestrale, poi, ha facilitato il compito degli interpreti nel configurare i propri personaggi.

In veste di protagonista, Raffaele Pe si è trovato a suo agio in un’estensione essenzialmente contraltile, disegnando un Giulio Cesare distaccato e super partes. Altri due controtenori hanno interpretato i personaggi che nel libretto di Nicola Francesco Haym appaiono contrapposti, vale a dire l’adolescente Sesto – figlio di Pompeo, proiettato a vendicare l’uccisione del padre – e Tolomeo, vizioso re d’Egitto: l’uno ha trovato in Federico Fiorio giusta espressività e impeccabile sicurezza nel canto, mentre l’altro è stato delineato da Filippo Mineccia con un’apprezzabile timbratura vocale, non sempre facile da rinvenire fra i controtenori.
Completava il quadro nel piccolo ruolo di Nireno il corretto Andrea Gavagnin, il quarto della serie, mentre le due voci gravi erano quelle di Davide Giangregorio, che ha evidenziato un pregevole timbro scuro nel negativo ruolo di Achilla, e il più opaco Clemente Antonio Daliotti nelle vesti del tribuno Curio. Due sole, invece, le figure femminili: Marie Lys è stata una Cleopatra (il ruolo cui Händel riserva le arie più iconiche dell’opera) non svettante in acuto, ma suo agio nel canto di coloratura, mentre Delphine Galou ha interpretato una Cornelia dolente e, tuttavia, mai rassegnata.

Lo spettacolo portava la firma di Chiara Muti, che si è avvalsa della scena – in cui prevalgono le sfumature dorate – di Alessandro Camera, che concepisce un enorme volto, scomponibile, adagiato sul palcoscenico (proiezione della testa di Pompeo?). Pregevoli pure i costumi di Tommaso Lagattolla e molto suggestiva l’illuminazione di Vincent Longuemare. La bussola della regista è palesemente Shakespeare, il cui Julius Caesar precede di quasi un secolo e mezzo l’opera di Händel, tanto che appaiono ben leggibili due citazioni del Bardo: da una parte un Sesto nerovestito che, sulla scia di Amleto, osserva un cranio meditando vendetta; dall’altro una Cleopatra che, alla conquista di Cesare sotto le mentite spoglie di Lidia, riecheggia Titania del Sogno di una notte di mezza estate, alle prese con la testa d’asino di Bottom.
La maggior preoccupazione è apparsa comunque di evitare che questo ‘dramma musicale in tre atti’ si trasformasse in una successione di arie; e, in una sorta di horror vacui, la regia ha contrapposto ai cantanti una serie di figuranti destinati ad animare la scena: creando effetti talvolta di suggestiva plasticità, talaltra inutilmente didascalici. Anche perché le loro interiezioni – gestuali e sonore – hanno creato distrazioni, divenendo fonte di rumori che vanno a interferire con la musica. Come a dire che non sempre le esecuzioni con credenziali filologiche garantiscono il miglior rispetto alle intenzioni dell’autore: sicché si esce di teatro con una certa nostalgia per quegli anni cinquanta in cui Cleopatra era affidata a gloriose “non specialiste” di Händel come Renata Tebaldi e Virginia Zeani; mentre a dar voce a Cesare c’erano, al posto dei controtenori, Cesare Siepi, Nicola Rossi Lemeni e Boris Christoff.

Giulia Vannoni