CARCERE. Un incontro della Caritas riminese affronta il tema di chi vive il ruolo di padre durante la detenzione. Ferita da cui può nascere una redenzione
Un rapporto fatto di sguardi, di silenzi, di mani che si stringono forte, quello tra un padre e il proprio figlio. Un tipo di amore che è incondizionato, puro, indistruttibile. In un mondo in cui tutto sembra cedere al peso delle difficoltà, questo legame dimostra che certe connessioni sono semplicemente eterne. Ma cosa succede quando la paternità deve combattere contro gli errori, la colpa e la distanza? Quando tra questi due cuori si frappongono delle sbarre? Lo sa bene Pasquale, un giovane papà che per 10 anni ha vissuto nelle quattro mura di un carcere, perdendosi l’infanzia e la crescita di due dei suoi tre figli. “ Come potevo fare il padre? Lo facevo attraverso una lettera, una videochiamata, nei colloqui…
Lo facevo migliorando me stesso, frequentando corsi che mi permettevano di avere delle ore bonus da passare con i miei figli nell’area giochi. – sospira, ricordando – Portavo dentro di me tanto rancore, tanta sofferenza: era solo colpa mia se mi trovavo in quel posto e non potevo invece stare con loro”.
La voce incrinata di Pasquale è come un sibilo timido, impacciato mentre prende a raccontare la sua storia durante l’incontro Famiglie a metà: essere padri al di là della detenzione, promosso dalla Caritas di Rimini in occasione della Giornata Nazionale del Fanciullo e della Povertà. Tra gli altri relatori, la dottoressa Aurora Barbari, psicologa clinica e criminologa, la dottoressa Laura Neri, psicologa clinica e psicoterapeuta della U.O.C.
Dipendenze patologiche Ausl Romagna attiva presso la Casa Circondariale di Rimini e
Paolo Amadori, volontario in ambito penitenziario.
“ Prima stavo a Santa Maria Capua Vetere e i miei figli li vedevo una volta a settimana.
– continua la testimonianza Pasquale – Poi sono stato trasferito in provincia di Siena, a San Gimignano, e le visite si ripetevano invece una volta al mese. Ora sono in carico ai servizi sociali all’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Rimini, in pena alternativa, e mi sono trasferito qui assieme a mia moglie e i miei due figli più piccoli. Il maggiore, che ora ha 15 anni, è rimasto a Napoli assieme alla madre, la mia prima compagna, ma mi sto mobilitando affinché possa venire qui, finire gli studi e trovare un lavoro dignitoso… ho paura che possa rovinarsi la vita come ho fatto io rimanendo a Scampia, un luogo degradato e retrogrado”.
“ Che cosa significa essere padre ora, fuori dall’istituto penitenziario?” gli chiede la dottoressa Barbari. “ Sto gradualmente cercando di riallacciare i rapporti con i miei figli, conoscere le loro abitudini, le
loro esigenze, i loro obiettivi.
Essere padre è il mestiere più complicato al mondo, ancora di più per me che per 10 anni mi sono perso tanti momenti importanti… Ma riuscirò a ricostruire la mia famiglia”.
Come hanno vissuto i figli questo percorso detentivo?
“ Il primogenito è cresciuto con i miei genitori. – continua Pasquale – La mamma era una ragazza madre e non poteva occuparsi da sola di lui.
Quindi lo vedevo davvero poco, solo quando i miei riuscivano a portarlo a colloquio. Ha vissuto il mio allontanamento come un abbandono: aveva quattro anni e mezzo circa quando mi hanno arrestato e il non vedermi o non coinvolgermi nella sua vita lo ha fatto crescere con un dolore incredibile. Il secondogenito, avuto con la mia attuale moglie, invece, ora ha 10 anni e penso abbia vissuto ‘meglio’ la distanza. Mia moglie è stata bravissima: me lo ha sempre portato a colloquio, mi coinvolgeva ai compleanni, a Natale, lo ha cresciuto ricordandogli la parola ‘papà’, e che io c’ero, che io gli volevo bene”. “ Cosa ti auguri come padre?” gli sorride la dottoressa Barbari.
“ Semplicemente il meglio per i miei figli, come ogni padre. Un futuro migliore, che i ragazzi possano istruirsi a scuola, che possano trovare un lavoro. Ora sono tornato e assieme alla mamma gli daremo il meglio che possiamo”.
I servizi attivi
“ Sono tre anni che entro in carcere. – racconta Paolo Amadori, ordinato diacono nel 2021 e che ha scelto proprio l’istituto penitenziario come servizio dove operare – È un’esperienza affascinante. Si incontra un’umanità ferita, e che allo stesso tempo ha ferito, un’umanità che vuole essere vista, che brucia di desiderio di redenzione, di venirne fuori”.
Amadori con voce ferma e sicura continua: “ L’uomo non è stato creato per il male, ma per fare il bene. Esistono delle circostanze che ti portano a fare cose sbagliate, ma in carcere non c’è solo il reato, c’è anche l’uomo. Dietro il detenuto, dietro l’errore, c’è anche una possibilità, ci deve essere.
È necessario parlarne, far conoscere questo mondo anche a chi sta fuori. Per questo parlo anche in tante scuole, a tanti ragazzi. Alla fine è importante ciò che diceva don Oreste: ‘Bisogna passare dalla certezza della pena (che è necessaria) alla certezza del recupero’”.
All’interno della Casa Circondariale di Rimini vi sono diversi progetti di riabilitazione e sostegno
promossi dal SERT (Servizio per le Tossicodipendenze), indirizzati sia a detenuti con problemi legati all’uso di sostanze stupefacenti sia a quelli che affrontano difficoltà psicologiche derivanti dalla loro condizione di reclusione e di distanza dai legami famigliari. “ Cerchiamo di affrontare questi problemi attraverso programmi che promuovano la resilienza e il benessere famigliare. – precisa la dottoressa Neri – Le azioni previste per il progetto in sostengo alla genitorialità sono dei colloqui clinici individuali sia con il detenuto sia con i familiari, finalizzati a facilitare e sostenere una relazione positiva con il partner e con i propri figli al momento sia della carcerazione sia della immediata scarcerazione”.
Da padre, come scendere a patti con la propria umanità, il proprio errore? “ Per il detenuto il primo passo è quello della disponibilità a riconoscere una difficoltà nella relazione con il proprio figlio e un riconoscimento delle proprie ferite pregresse. È indispensabile curarsi prima di potersi prendere cura di altri: si tratta di ripercorrere, rivisitare e rielaborare la propria storia”.
Le vicende come quella di Pasquale ci ricordano che la paternità, anche nei contesti più difficili, non è solo una responsabilità, ma ha in sé anche una possibilità di redenzione. Ecco il senso profondo del perdono e della resilienza: un padre che non si arrende e i figli che imparano a credere di nuovo. Perché nel recupero di un padre rinasce anche la speranza di un’intera famiglia.