Peter Grimes di Britten con la regia di Deborah Warner ha concluso la stagione del Teatro dell’Opera di Roma
ROMA, 15 ottobre 2024 – Lo spavento che si legge sul volto del bambino, prelevato in un orfanatrofio dal rozzo pescatore Peter Grimes per avere un aiuto sulla barca, condensa in modo potentissimo l’atmosfera plumbea che si respira nel villaggio costiero dove è ambientata l’opera più nota di Britten.
La regista Deborah Warner rende con pochi gesti di grande intensità lo spaesamento del ragazzino, che per certi aspetti appare speculare a quello del protagonista stesso: raffigurato non tanto come un uomo gretto, animato solo dal desiderio di un riscatto economico e sociale, ma come un perdente se non – addirittura – un poeta che aspira a qualcosa di più alto (basterebbe pensare alla sua aria Great Bear). Piuttosto, è l’asfittico ambiente circostante – il borgo e i suoi meschini abitanti – a condizionarne l’atteggiamento e l’intera esistenza.
Lo spettacolo messo in scena al Teatro dell’Opera (dove, sempre a proposito di Britten, la regista britannica aveva firmato un indimenticabile Billy Budd) valorizza comunque numerosi altri dettagli e punta molto sulla recitazione degli interpreti, trasformati tutti in ottimi attori, compresi i componenti del coro. Curatissima la gestualità di ciascuno in relazione all’attività che svolge; ed è estremamente suggestivo il fantasma del primo aiutante di Peter – un altro ragazzo anche lui inghiottito dal mare – che fluttua nell’aria: il suo ricordo tormenta il protagonista durante i rari momenti di riposo. Alla fine, quando precipita al suolo, diventerà chiaro che pure il protagonista per sé sceglierà la morte.
Il libretto di Peter Grimes è ispirato dal poema d’inizio ottocento The Borough di George Crabbe, sebbene Britten si sia concesso numerose libertà per non vincolare troppo la vicenda a una precisa situazione storica. La trasposizione contemporanea effettuata dalla regia, leggibile pure nelle scene essenziali di Michael Levine e nei costumi di Louis F. Carvalho, rafforza l’idea di una comunità chiusa e arretrata (simile all’odierna periferia inglese che ha scelto la Brexit), dove albergano diffidenza e paura del diverso: insomma quella società che il compositore intendeva stigmatizzare, quando nel 1945 presentò al pubblico di Londra questo lavoro, destinato a diventare uno dei capisaldi del novecento operistico.
A fronte di uno spettacolo così lucido e capace di toccare profonde corde emotive, sul piano musicale non tutto funzionava altrettanto bene. Michele Mariotti, al suo debutto in questa partitura, sembra non andare oltre un semplice commento delle immagini, con una gestione delle dinamiche spesso deficitaria. Ne risulta una lettura sfilacciata, dove si allenta troppo la tensione drammatica e latita – anche scenicamente, d’altronde – quell’eco del mare che dovrebbe far da pedale all’intera vicenda. Diretti davvero bene invece i momenti più lirici, soprattutto il quartetto delle donne (Ellen, Zietta e le due nipoti) del terzo atto. Lodevole l’impegno del coro preparato come sempre da Ciro Visco.
Seppure ben assemblato scenicamente, il cast era poco omogeneo sul piano vocale. I numerosi comprimari, pennellati uno a uno dalla regista, rimanevano però un po’ indistinguibili fra loro sul piano musicale. Il tenore Allan Clayton è stato un protagonista credibile nella sua capacità di alternare la rabbia per l’isolamento cui il villaggio l’ha condannato (quando entra nella locanda al momento della tempesta, viene accolto da un silenzio glaciale) agli slanci intimistici. Nessuno lo comprende tranne la maestra Ellen Orford, interpretata in modo convincente del soprano Sophie Bevan, nonostante un’emissione talvolta disomogenea. Amico del protagonista è solo Balstrode – dopo la morte del secondo ragazzo sarà lui a suggerirgli di sparire in mare – interpretato da un veterano come il baritono Simon Keenlyside, di notevoli capacità comunicative malgrado una voce ormai usurata.
Tra gli altri converrà citare almeno il farmacista del baritono Jacques Imbrailo, il carrettiere del basso Stephen Richardson e il reverendo del basso-baritono James Gilchrist. Gli altri non andavano oltre un onesto professionismo, formando comunque – nell’insieme – un’affiatatissima squadra.
Giulia Vannoni