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Chiesa assediata o in uscita?

Don Oreste e Francesco, il profeta e il pastore (1). Abbiamo chiesto alla sua postulatrice un confronto: le convergenze, le consonanze, le affinità, perfino di stile

Erano molti quelli che gli dicevano: «Sta’ attento don Oreste, che ti fanno vescovo!», vedendolo in TV e per il tanto bene che riusciva a fare con pochi mezzi.

Lui si scherniva e, scherzando, rispondeva pronto: « Ma no, dai! Lo Spirito Santo non farà mai questo sbaglio! ».

Ritengo fosse sincero, perché avvertiva talmente forte l’urgenza e la responsabilità di radicare il Vangelo in tutto il mondo, secondo il carisma della Papa Giovanni XXIII « conformare la propria vita a Gesù povero, servo, sofferente, che espia il peccato del mondo, e nel condividere direttamente la vita degli ultimi » (Carta di fondazione, 1) – che una diocesi, di certo, gli sarebbe stata troppo stretta!

Tuttavia, aveva anche ragione: oggi don Oreste sarebbe potuto essere papa! Le convergenze, le consonanze, le affinità, perfino di stile con papa Francesco (basterebbe guardare solo le loro scarpe!) sono talmente fitte e profonde, che un don Oreste papa, oggi, non sorprenderebbe più di tanto e, forse, in tanti – non tutti! – ne sarebbero anche contenti.

La storia gli ha dato ampiamente ragione su tante sue posizioni – catechesi ed evangelizzazione, parrocchia e diocesi, affido e centralità dei poveri, giovani ed economia, solo per citarne alcune.

Come ogni profeta che si rispetti, nell’immediato pareva avesse torto o, almeno, fosse un po’ troppo esagerato; invece, aveva ragione, perfino quando aveva torto!

Per poco più di una manciata di anni non si sono incontrati: don Oreste ci lascia il 2 novembre del 2007; papa Francesco si affaccia dalla loggia centrale di San Pietro il 13 marzo 2013. In pochi mesi, forse l’unico gesuita non addottorato, inizia la rivoluzione nella Chiesa, con la stessa semplicità con cui il vecchio Giovanni XXIII aprì le porte del Concilio.

La miccia è accesa con l’uscita dell’Evangelii gaudium (24 novembre 2013), che prospetta e inaugura un altro volto di Chiesa: la Chiesa in uscita. La Chiesa dalle porte aperte a tutti, che assomiglia più ad un “ ospedale da campo” che a una dogana o a una Ong o, addirittura, ad un museo; la Chiesa che « non può lasciare le cose come stanno»

e chiudersi nel « comodo criterio pastorale del si è sempre fatto così” »; la Chiesa che rende presente Dio nel mondo, che tocca le ferite, la carne di Cristo che soffre in chi soffre, e ne condivide la vita (EG 25.33; cf. 47.176.180.270.272); insomma, « preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, – conclude (e sbotta!) papa Francesco – piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata » (EG 49).

Verrebbe da chiedersi quando padre Bergoglio iniziò a sognare questa Chiesa.

Certo è, che una visione del

Come ogni profeta che si rispetti nell’immediato pareva avesse torto, o almeno fosse troppo esagerato, poi invece aveva ragione anche quando aveva torto…

genere, e giunta a certezza tale da volerla dichiarare magistero pontificio, non si elabora in pochi anni. Diventa comunque centrale quando diventa vescovo (1992) e perviene alla sua piena maturazione proprio quando don Oreste esce di scena: intorno al 2007, in occasione della Conferenza di Apareçida sull’evangelizzazione.

Negli stessi anni, dall’altra parte del mondo, c’è un altro prete che sogna.

Don Oreste matura riflessioni analoghe sulla Chiesa, affidandole prima alle pagine di Avvenire (5 giugno 1991) e poi al libro intervista Con questa tonaca lisa (dicembre 1991), in cui parla, al contrario, di una Chiesa che non riesce ad uscire: una “ Chiesa assediata”. Assediata non solo dall’esterno (islamizzazione, sette e nuove forme religiose), ma anche dall’interno, perché rinchiusa nella sua autoreferenzialità: « controlla, manda ordini, quasi che ancora esistesse una cristianità da dirigere, mentre la cristianità non c’è più. […] esiste solo un esercito disarmato – inconsapevole cioè della propria identità e missione di rinnovare il mondo, (ndr) – un esercito sbandato.

I generali, i colonnelli e gli ufficiali continuano a fare il piano di guerra, quando l’esercito non c’è più. Ne deriva una grande perdita di tempo, in realtà il popolo è ancora tutto da creare». E rilancia: «Lo scopo è che la Chiesa diventi prossima a ogni persona attraverso comunità missionarie che, salvate da Cristo, diventano contagiose per gli altri, riescono a far innamorare di Cristo. In gran parte oggi il cammino pastorale viene invece indicato dall’alto. I preti e i laici sono la cinghia di trasmissione e tutti insieme si dovrebbe camminare sulla linea tracciata, che però molte volte non risponde alla vita reale. Prima di fare le strade è bene guardare dove passa la gente […]. Il metodo dovrebbe essere esattamente il rovescio […]. La profezia va incoraggiata; siamo in un tempo in cui la spregiudicatezza deve essere la regola, sempre sotto la garanzia dei pastori. Ci sono troppi “profeti” della normalità che è sentita, specialmente dai giovani, come malattia » (ed. 1997, pp. 135136; 151-152).

Verrebbe da chiedersi anche quando don Oreste inizia tali considerazioni. Non si sa con certezza, almeno fino al 1989, quando in un taccuino, chiamato Diario critico, a margine di un consiglio presbiterale, appunta: « Non so, ma c’è qualcosa che non mi persuade. […] I problemi che si trattano riguardano la strutturazione della Chiesa nel suo interno. Mentre divampa il problema dei terzomondiali, il Consiglio presbiterale parla del diaconato. Mentre infuria la polemica per i nomadi, si parla di come strutturare il consiglio presbiterale. Mentre la gente è lontana dalla Chiesa e mentre i testimoni di Geova corrono da tutte le parti, tali problemi non arrivano. Ho l’impressione di una chiesa istituzionale che crede di essere la cristianità; in realtà ho l’impressione che si viva fuori dalla dinamica del popolo.

L’organizzazione del Consiglio pastorale mi sembra l’organizzazione di una specie di potere che comanda, ma il Cristianesimo nel mondo dov’è? Tutto ciò è impressione, ma la realtà qual è? La Chiesa se si riducesse questo, come potrebbe essere sale, luce? […] “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnato”. I problemi dell’immigrazione sono enormi: nel 2000 un terzo della gioventù d’Europa sarà extracomunitaria […] e in questo Consiglio presbiterale si parla sul come strutturare il Consiglio pastorale, si parla sul come cesellare le formule proposte: per me è un pianto!

Ma se io sbaglio tutto? Il Consiglio pastorale è l’incontro nella fede sui problemi emergenti […] è il Popolo di Dio che deve permeare la realtà organizzata in modo estraneo a Cristo […]. Appena sarà finito questo incontro, io devo andare al campo nomadi, dove i Rom stanno per essere scacciati e in questo momento che sono presente sento un qualcosa che non capisco, ma che mi fa stare male. Le cose che vengono dette sono buone, ma a che cosa servono? Oppure io non capisco niente? […] Intanto, la Parola di Dio non arriva più alla gente, le sette devastano il Regno di Dio, i cristiani vivono la professione come sistemazione, anziché come missione, ognuno fa i propri affari e pensa a se stesso, i valori morali cristiani non esistono più come valori decisivi. Può darsi che io sbagli, ma intanto la vita sociale va avanti senza Cristo!».

Un paio di anni più tardi griderà sui tetti queste riflessioni sul quotidiano nazionale dei vescovi italiani e poi in Con questa tonaca lisa, che lo renderà voce di chi ama la Chiesa, ma la vede impantanata nella sua autoreferenzialità.

Le ribadirà nel 1995, in occasione del Convegno Ecclesiale di Palermo, dedicato al “Vangelo della carità”, che giudica «fallito e pertanto da rifare» , perché «si è riproposto l’eterno difetto della Chiesa che parla sui poveri, ma non rivoluziona se stessa» (Ib., 159).

Lo ribadirà, infine, a pochi giorni dalla sua dipartita, alla Settimana sociale dei cattolici, riuniti a Pisa per discutere sul “bene comune”: « Io ho visto, penso e credo che il nemico – perdonate la parola – del bene comune

Si è persa, si è sbriciolata e poi scomparsa, la coscienza di essere popolo, popolo di Dio con una missione”

è… siamo noi cattolici. In che senso? Ovunque ci si gira si è persa, si è sbriciolata e poi scomparsa la coscienza di essere popolo, popolo di Dio, con una missione di salvezza da portare […]. Il popolo cristiano apre la casa, le braccia e vive insieme con loro? [ carcerati, orfani, schiave della strada]. […] È arrivata l’ora dell’azione. No, meglio, della concretezza. […] Dobbiamo veder i fatti, la gente si sente tradita tutte le volte che ripetiamo le parole di speranza, ma non c’è l’azione. Cos’hanno lasciato i cattolici, permettetemelo? Hanno lasciato la devozione. Devozione che è unione con Dio-Amore, che è validissima, ma la devozione senza la rivoluzione non basta, non basta. Soprattutto le masse giovanili non le avremo mai più con noi, se non ci mettiamo con loro per rivoluzionare il mondo e far spazio dentro ».

Caro don Oreste, oggi molti, tanti ti dicono invece: «Sta’ attento don Oreste, che ti fanno santo!», ma tu continua a rispondere come hai sempre fatto: lo Spirito Santo ci stupirà ancora!

Elisabetta Casadei
Postulatrice causa beatificazione don Oreste Benzi