La programmazione della settantacinquesima Sagra Musicale Malatestiana continua con i grandi appuntamenti sinfonici
RIMINI – Resa immortale da Virgilio, la figura di Didone ha goduto di grande fortuna musicale durante il settecento fino a una propaggine ottocentesca come Les Troyens di Berlioz. Andata in scena per la prima volta nel 1689, Dido and Aeneas (su libretto di Nahum Tate), lasciata incompiuta da Henry Purcell, si pone come archetipo di situazioni drammatiche che poi attraverseranno la più significativa produzione operistica. Vi compaiono infatti le streghe, che un ruolo fondamentale avranno poi nel Macbeth verdiano; c’è la figura del marinaio con voce tenorile, che assumerà un valore simbolico sia nell’Olandese volante sia nel Tristano wagneriani. E il suicidio di Didone, il momento più struggente dell’opera di Purcell, poi, con il suo lento dissolvimento non può far a meno di evocare la trasfigurazione di Isotta, che conclude appunto il Tristano.
Inserito nel cartellone della Sagra Malatestiana e frutto di una collaborazione con i San Marino International Summer Courses, Dido and Aeneas è stata proposta in forma di concerto, in una versione leggermente abbreviata, nella suggestiva cornice del Lapidario del Museo cittadino a Rimini. L’esecuzione era affidata all’ensemble formato da docenti e allievi partecipanti all’Early and Baroque Music Project (nell’ambito dei corsi estivi sammarinesi). Utilizzando corde di budello, il gruppo strumentale – fin troppo esiguo perché formato solo da due violini, viola e violone – diretto dal norvegese Lars Henrik Johansen, anche concertatore al cembalo, non sempre si è trovato a proprio agio in uno spazio aperto. Nell’insieme vocale, formato da nove cantanti, più ancora del terzetto principale (Enea, Didone e sua sorella Belinda), vale la pena segnalare Eleonora Aleotti, nel ruolo della strega, Giulia Gabrielli, in quelli della maga e il secondo tenore Emanuele Petracco, come marinaio.
Un insieme magnifico, di flessibilità e compattezza formidabili in ogni sua sezione. Diretta da Myung-Whun Chung, la Royal Concertgebouw Orchestra – sicuramente fra i migliori complessi strumentali del mondo – ha inaugurato al teatro Galli i concerti sinfonici della settantacinquesima Sagra Malatestiana. La serata si è aperta con l’ouverture del Freischütz, il capolavoro di Weber, restituita attraverso una lettura asciutta che nulla concede a effetti iperromantici, sospesa in un ideale equilibrio tra i riverberi degli echi della natura e la componente soprannaturale. Forse meno efficace la dialettica – almeno a livello stilistico – tra orchestra e solista nel Quarto concerto di Beethoven, dove il preannunciato András Schiff è stato sostituito da Seong-Jin Cho. Il trentenne pianista coreano, oggi sulla cresta dell’onda, ha dimostrato una padronanza assoluta della tastiera, lasciando però l’impressione di ascoltare due concezioni differenti di Beethoven. Da un lato, quello più maestoso e ritmicamente energico dell’orchestra; dall’altro, quello liquido e fin troppo intimista del pianoforte (non è un caso che il più convincente sia apparso proprio l’‘andante’): già proiettato, insomma, verso un futuro prossimo e forse lontano dalle intenzioni di Beethoven.
Nella seconda parte della serata appuntamento con Brahms e la sua Quarta sinfonia. Qui Chung, ancora una volta, ha esaltato le potenzialità della magnifica orchestra quando il suono si assottiglia come se fosse un insieme cameristico: pianissimi vellutati, perfetto equilibrio fra i piani sonori, compattezza che va oltre la scontata bravura nel raggiungere il più perfetto unisono. La capacità, insomma, di respirare a una voce sola. Una sensazione non solo confermata, ma che ha raggiunto la sua vera e propria apoteosi nella Quinta danza ungherese, eseguita come bis.
Del cartellone della Sagra fa parte anche una sezione cameristica. Il primo appuntamento è stato con l’Italian Youth Guitar Orchestra: una formazione, tutt’altro che comune, di chitarre (anche se in realtà integrate da un violino, violoncello, flauto e clarinetto). L’effetto complessivo è però molto piacevole, sebbene il lungo tempo richiesto a ogni brano per le accordature abbia talvolta distolto l’attenzione dell’ascoltatore. Questo insolito ensemble ha accompagnato, nella seconda parte della serata, il soprano Ilona Mataradze in arie da camera di Donizetti, Verdi, Fauré, Villa-Lobos e Rachmaninov – il celebre brano Vocalise, l’unico senza parole – affrontate dalla cantante georgiana con sicurezza, seppure con un vibrato fin troppo invasivo per questo repertorio e in relazione all’organico strumentale (colpa forse dell’amplificazione?). La prima parte del concerto era stata invece interamente dedicata alla chitarra solista, quella di Pier Luigi Colonna, che ha proposto una serie di autori d’area ispanica: da Barrios (alias Mangoré) a Tárrega, da Malats a Rodrigo, passando per l’italiano Paganini. Oltre ad aver curato gli adattamenti orchestrali delle arie vocali – concepite per pianoforte – e ad aver diretto l’ensemble strumentale, Colonna ha dunque sfoderato le sue caratteristiche di versatile strumentista, e non solo. Aveva infatti concluso la sua esibizione alla chitarra con Romanza per Alfredo, emozionante pezzo chitarristico scritto da lui e presentato in prima assoluta: una sorta di ‘tema con variazioni’ che rielabora le suggestive melodie di Canzone di settembre, forse il brano più noto scritto dal pianista e compositore Alfredo Speranza.
Se non il più talentato, certamente il più famoso componente di una famiglia di musicisti, oggi Vladimir Jurowski è una bacchetta internazionale di primissimo piano. Nel secondo appuntamento sinfonico della Sagra ha guidato la Rundfunk-Sinfonieorchester Berlin, di cui è direttore principale, in un programma dove ha trovato ancora ampio spazio Brahms. La serata si è così aperta con le Variazioni su un tema di Haydn del 1873: pagina insidiosa ma ben valorizzata dalla lettura di Jurowski che ha saputo restituire, nonostante l’elaborato trattamento armonico brahmsiano e l’assai più monumentale organico, la cristallina limpidezza originaria di Haydn. A seguire il celeberrimo Concerto in mi min. per violino e orchestra di Mendelssohn, lavoro completato nel 1845 dopo lunga gestazione. Solista Augustin Hadelich, il quarantenne violinista nato in Toscana da genitori tedeschi, che – dopo l’esordio da enfant prodige – sembrava condannato a una brusca interruzione della carriera, a seguito delle gravissime ustioni causate dall’incendio scoppiato nella fattoria di famiglia. Sarà stata forse questa traumatica esperienza ad averlo trasformato in un violinista dalle caratteristiche differenti rispetto agli attuali virtuosi: la sua esecuzione più che puntare sulla velocità – come spesso oggi succede – si basa sulla esaltazione della bellezza del suono, grazie a un sapientissimo uso dell’arco, sempre morbido e suadente, a servizio dell’intelligibilità del fraseggio musicale e, dunque, del pensiero dell’autore. Il suo talento istrionico si è invece espresso attraverso il bis: un tripudio di arditissime elaborazioni costruite su un tema polare.
Con l’ultimo brano in programma, la Prima sinfonia in do minore del 1876, si è tornati ancora a Brahms: una pagina cui Jurowski ha impresso grande slancio grazie a un’esecuzione avvincente. Poco importa se qualche strumentista talvolta non è apparso del tutto adamantino: attraverso un attento dosaggio delle dinamiche il direttore russo ne ha dato comunque un’emozionante lettura, esaltando le ascendenze beethoveniane ben evidenti a livello formale, che diventano del tutto esplicite nella citazione della Nona in chiusura. Allo stesso modo ha valorizzato gli echi di Schubert – avvertibili nei risvolti più intimi della partitura – conducendo quasi per mano l’ascoltatore nella percezione di temi, frasi e incisi che si rincorrono lungo l’affascinante percorso. Una sensazione prolungatasi con l’immancabile Danza ungherese proposta come bis.
Giulia Vannoni