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Discriminazione ‘childfree’

Sempre più diffusi i locali che non ammettono famiglie con bambini. Ma la legge…

Childfree, no kids. Due termini per indicare una medesima prassi che, proveniente dall’estero, si sta diffondendo anche in Italia (e in Romagna), ossia quella di strutture ricettive, soprattutto ristoranti e alberghi, che non ammettono la presenza dei bambini. Il motivo è facile da intuire e, senza ipocrisie, comprendere: la volontà di garantire ai clienti un’esperienza priva di quella dose di confusione e imprevedibilità che la presenza di bambini, soprattutto quando maleducati o accompagnati da genitori distratti, inevitabilmente comporta. Ma se i motivi sono comprensibili, non significa che tale pratica sia giustificabile: i bambini sono pur sempre persone e quindi, a ben guardare, siamo di fronte a una forma di discriminazione. Non solo. Se si cominciasse a considerare come normale un’usanza del genere, cosa impedirebbe, estremizzandola, di arrivare al divieto di ammettere disabili o altre categorie (tra mille virgolette) di persone nei locali pubblici? Importante, dunque, che esista un dibattito sul tema. E che parta da qualcosa di oggettivo: la legge.

Cosa dicono, dunque, le norme italiane sull’argomento? Risponde, analizzando la questione, l’avvocato romagnolo Pierino Buda.

“Su questo tema si prende in considerazione una norma relativa alla pubblica sicurezza. Per la precisione, c’è un articolo contenuto nel Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (noto come TULPS), l’articolo 187, che stabilisce esplicitamente che a parte in casi specifici previsti dal codice penale e relativi alla somministrazione di alcolici ai minori o a coloro che sono già in evidente stato di alterazione da sostanze alcoliche (articoli 689 e 691 del codice penale), l’esercente di un pubblico esercizio è obbligato a erogare le proprie prestazioni a qualunque avventore che intenda corrisponderne il prezzo.

L’attività dei locali noti come ‘childfree’ o ‘nokids’, dunque, non è legittima. È possibile differenziare, ad esempio, le proprie prestazioni destinando una sezione dei propri locali a un certo tipo di clientela, ma occorre sempre rimanere nell’ambito di un’erogazione di servizi generalizzata a tutti”.

Pierino Buda, avvocato: “Secondo le norme si tratta di pratiche illegittime. In caso si venisse respinti, dunque, è possibile fare denuncia”. Disciplina confermata dall’Unione Nazionale dei Consumatori

Un titolare di struttura ricettiva potrebbe rispondere affermando di gestire la propria attività come meglio crede. Come considerare questo tipo di argomentazione?

“Va sottolineato che alberghi e ristoranti sono sì strutture private, ma aperte al pubblico: come tali, secondo la disciplina citata, sono tenute a erogare i propri servizi a tutti coloro che lo chiedono (dietro regolare pagamento). Questa è la norma generale anche se, ovviamente, il legislatore può intervenire sulla materia per regolamentarla più nel dettaglio.

Ma ad oggi la disciplina è questa ed è inderogabile”.

Guardando sui canali di comunicazione delle strutture che, anche a Rimini, non ammettono la presenza di bambini, ci si accorge che il divieto non è mai esplicito. Altro segno che si tratta di una pratica illegittima?

“Non può esserci divieto esplicito. Solitamente, infatti, le strutture di questo tipo affermano di non avere i mezzi e gli strumenti per gestire adeguatamente i bambini, cercando in questo modo di giustificare una selezione e disincentivare gli avventori. Ma non si può vietare espressamente l’ingresso per i bambini, così come per gli anziani o altre categorie, rischiando di innescare un meccanismo spiacevole”.

Stabilito tutto questo, come comportarsi nel caso in cui si venisse respinti per la presenza dei propri bambini?

“Si può segnalare la struttura o anche fare denuncia, perché si tratta di una violazione di legge. In genere, però, chi gestisce questo tipo di struttura è abbastanza preparato nell’interloquire con i clienti, solitamente aggirando l’ostacolo affermando di non avere più posti disponibili o, come detto, cercando di disincentivare il più possibile”.

Affermazioni in linea con quanto indicato anche dall’Unione Nazionale dei Consumatori, da tempo attiva sul tema, che spiega nel dettaglio come muoversi in caso di violazioni di questo tipo. “ Cosa può fare il consumatore che si vede opporre un rifiuto? – si legge sul sito ufficiale – La condotta, di per sé, non riveste rilevanza penale (a differenza del rifiuto per discriminazione razziale, etnica o religiosa). Si tratta però di un illecito amministrativo (sanzionato con una multa che oscilla dai 516 ai 3098 euro) che potrà essere comminata sulla base di una segnalazione alle Forze dell’Ordine”.