Otello, interpretato da Gregory Kunde, ultimo spettacolo del Teatro dell’Opera di Roma prima della pausa estiva
ROMA, 1 giugno 2024 – La psicanalisi non ha identificato niente di nuovo. Già agli inizi del seicento Shakespeare aveva capito tutto sui meccanismi che regolano i rapporti umani: era dunque consapevole di come la malvagità potesse far breccia su chi non riesce più a misurarsi con l’evidenza, abdicando alla lucidità. Quasi tre secoli dopo, Arrigo Boito – con il contributo determinante della musica di Verdi – ha scandagliato ancor più in profondità la patologica psicologia dei caratteri shakespeariani, mettendo ben in evidenza anche la lotta interiore fra sentimenti contrastanti che affrontano i personaggi.
Fra i massimi capolavori di sempre, Otello è andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma in un allestimento proveniente da Monte-Carlo. Firma la regia Allex Aguilera, che ha concepito uno spettacolo nel suo insieme tradizionale: scena fissa di Bruno De Lavenère, con arcate che suggeriscono quelle veneziane di piazza San Marco (è vero che qui siamo a Cipro, ma il legame con la Serenissima è fortissimo) e delimitano una sorta di piscina con l’acqua dove il Moro affogherà Desdemona; video di Etienne Guiol e Arnaud Pottier per suggerire l’idea della tempesta iniziale e, nello stesso tempo, capaci di fornire un valido contributo nella movimentazione della cornice scenica. Belli i costumi, soprattutto maschili, di Françoise Raybaud Pace, mentre suscitava qualche perplessità l’eccessiva propensione al vino (tengono tutti il bicchiere in mano, fosse pure il famoso vin di Cipro…).
Con una cornice invariata per i quattro atti, l’attenzione si focalizza così sulla musica. In primo luogo sulla direzione di Daniel Oren, che ha ben governato l’orchestra del teatro romano anche nei momenti più ardui, pur offrendo una lettura non sempre carica di tensione emotiva e, nell’insieme, un po’ avara di emozioni: lo struggente tema “del bacio” – il più importante fra i leitmotiv dell’opera – qui risulta ben percepibile solo quando scandito da Verdi in modo inequivocabile, ma laddove resta appena accennato fra le pieghe orchestrali Oren non lo lascia trapelare. Si direbbe che il direttore israeliano abbia puntato soprattutto sui contrasti dinamici: volumi che aumentano nei momenti burrascosi e nei grandi climax corali, più contenuti e accompagnati da rallentamenti nei passaggi lirico-intimistici. Di fronte a un’orchestra nell’insieme abbastanza prevedibile, definire i contorni emotivi del dramma è così diventato compito dei cantanti.
Nei panni del Moro di Venezia (anche se ormai nessun interprete si tinge più la faccia di nero), il grande tenore americano Gregory Kunde ha disegnato un personaggio quasi annichilito, sgomento davanti all’abisso che il veleno del sospetto, inoculatogli da Jago, gli spalanca. In termini vocali, l’atteggiamento si è tradotto nella tendenza a puntare soprattutto sugli accenti (la proverbiale parola scenica) e sul loro valore espressivo. Invece, quando ormai ha perso il lume della ragione e dà sfogo al furore di uomo geloso, la vocalità del protagonista diventa sempre più espansa e il canto più incisivo. A un Otello che tende a ripiegarsi su se stesso si è contrapposto il sonoro Jago di Igor Golovatenko, baritono russo di notevole solidità: anche quando sussurra nel modo più subdolo le sue menzogne, la voce resta sempre perfettamente proiettata; mentre l’interprete è misurato, mai percorso da sfumature autenticamente diaboliche. In tale dialettica, tra l’Otello maturo ma perdente di Kunde e lo Jago giovanilmente granitico di Golovatenko, la Desdemona di Roberta Mantegna corre il rischio di essere tagliata fuori. Il canto del giovane soprano – ormai una beniamina dell’Opera di Roma – è sempre limpido e scorrevole, ma il suo personaggio resta un po’ troppo imperturbabile e quasi inconsapevole dell’abisso in cui è precipitato il marito. Pregevole il resto del cast, a cominciare dal tenore polacco Piotr Buszewski, nei panni di un Cassio oltremodo persuasivo; per proseguire con il basso Alessio Cacciamani, un sonoro Lodovico, e con l’altrettanto efficace baritono Alessio Verna come Montano. Meno interessante il Roderigo di Francesco Pittari, mentre l’Emilia della pur brava Irene Savignano non è stata messa abbastanza a fuoco dalla concertazione (nel quartetto del secondo atto sembrava scomparire).
Il coro, preparato come di consueto da Ciro Visco, ha assolto molto bene al proprio compito. Ancor più degne di apprezzamento sono apparse le voci bianche del Teatro dell’Opera, che – fra l’altro – la regia riesce a valorizzare in uno dei rari sprazzi di colore che illuminano una scena quasi costantemente plumbea.
Giulia Vannoni