Intervista. Il dottor Roberto Scaini, 51 anni, riminese, di Medici Senza Frontiere. Di ritorno dal Territorio di Gaza, racconta cosa ha visto
Roberto Scaini, 51 anni, è un medico e operatore umanitario di Medici Senza Frontiere di cui è stato anche vicepresidente.
Dal 2011 è stato impegnato in diverse missioni: Siria, Etiopia, Iraq, Sud Sudan, Liberia, Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo, Yemen, Bolivia, Brasile ed ora Gaza. Abita a San Clemente e lavora come medico di base a Misano Adriatico. Il suo cruccio è trovare chi lo sostituisce durante le tante missioni all’estero. Di ritorno da Gaza è stato invitato dal gruppo Fratelli tutti di San Lorenzo in Correggiano, dove durante una serata dedicata al tema Palestina, è stato intervistato da Giorgio Tonelli.
Quali notizie porti da Gaza?
“Le notizie dalla Striscia di Gaza continuano a non essere positive. Oggi è davvero difficile descrivere com’è la situazione.
Gaza appare come un’arena.
Dentro si gioca al massacro perdendo qualsiasi concetto di umanità. È una situazione semplicemente disumana. Qualsiasi limite è stato già da tempo superato e ogni giorno ti chiedi fino a che punto la crisi umanitaria possa deteriorarsi ancora. È un inferno che posso descrivere con un’immagine: vivere nella Striscia è come trovarsi al settimo piano di un palazzo che va a fuoco. Non puoi scendere, perché le porte sono chiuse e da qui non puoi uscire. Devi aspettare e sperare che l’incendio si spenga, che arrivi un cessate il fuoco. Le persone non possono scappare dalla guerra. Prima sono state spostate a Sud: adesso sono invitate ad andarsene. A Nord non c’è più nulla se non macerie e comunque non potresti andarci, perché gli israeliani ti mitragliano. Abbiamo curato tanti ragazzi colpiti alle gambe…
Chiusi da mura, coi confini bloccati, anche dal mare dove i pescherecci vengono mitragliati o presi a cannonate”.
Tu dove hai operato?
“Io sono stato nella parte centrale, a Deir el Balah, dove Medici Senza Frontiere supporta l’ospedale di Al-Aqsa. Quel che ho visto e vissuto è una situazione al collasso. All’interno dell’ospedale centinaia di pazienti in ogni angolo: per terra, sulle scale, nei corridoi. Era addirittura difficile capire chi ancora fosse vivo e chi morto. Nella stanza adibita a camera mortuaria arrivano brandelli di corpi di intere famiglie, tenute nei sacchi. Insieme ai feriti, nell’ospedale vivono centinaia di persone che hanno cercato un rifugio. Un rifugio che non c’è, perché oggi qualsiasi struttura è un bersaglio”.
Si riesce ad assicurare una qualche forma di sostegno medico?
“Non c’è più alcun tipo di organizzazione. Sarebbe importante, ad esempio, riuscire a fare un triage per la valutazione iniziale dei pazienti, per capire le priorità e intervenire in maniera efficace. Ma non è possibile. Gli ospedali sono in preda al caos: c’è gente che vive lì, ci sono persone sdraiate a terra che non capisci se siano state medicate o meno.
Ci sono corpi ovunque, e a volte si fa fatica a capire da dove iniziare. Del resto, nell’ospedale di Al-Aqsa ogni settimana arrivano in media 270 feriti e 150 morti: con
questi numeri è impossibile mantenere un sistema organizzativo che non sia destinato a collassare. A Gaza il 75% delle strutture sanitarie sono state distrutte.
Nei pochi ospedali rimasti in piedi manca tutto: mancano le garze, mancano i farmaci, mancano gli anestetici. Manca lo spazio operativo. Non si sa più dove mettere i pazienti, che, come ho detto, vengono sistemati anche a terra. L’ospedale di Al-Aqsa ha 200 posti letto, ma ci saranno 7-800 persone. In realtà nessuno sa esattamente quanti siano.
Il pronto soccorso è diventato un posto assolutamente indescrivibile, dove i corpi sono ovunque. I miei colleghi lavorano senza tregua, sono esausti, camminano come degli zombie cercando di fare quello che possono. Sembra un dispaccio da una guerra del Medioevo ma invece è il dispaccio da una guerra che si sta atrocemente compiendo nel 2024”.
In alcuni filmati che hai inviato da Gaza si sentono, mentre parli, rumori di guerra… “Si trattava di droni che volano sopra alla nostra testa, un rumore perpetuo, anche di notte siamo continuamente osservati. È normale continuare a sentire anche colpi di mortaio, i carri armati sparare, i jet passare bassissimi e bombardare. Sono suoni che non si possono descrivere.
Le esplosioni sono talmente vicine che alle volte sentiamo il fischio dei missili e ci chiediamo dove si abbatteranno, con il loro frastuono assordante. Sono costretto spesso ad abbassare gli occhi nel guardare le persone, nel guardare la disperazione sui loro volti. Sembra che qui anche la speranza sia stata uccisa insieme agli innocenti. Gli stessi bambini vagano per la città cercando qualcosa. È una situazione umanamente devastante”.
Perché quando si parla si usano sempre i termini: “Entro a Gaza, esco da Gaza”…?
“In effetti è fisicamente entrare in un posto chiuso. Gaza è una prigione a cielo aperto perché non c’è possibilità di uscire da lì e questo penso che rappresenti in assoluto l’aspetto più drammatico. È una prigione dalla quale nessuno può uscire. A meno che non si sia in una situazione fortunata come noi operatori umanitari, per esempio: sappiamo che entriamo e, se tutto va bene, possiamo anche uscire. Tanto più oggi, che in quella terra non esiste più un posto sicuro, un posto dove mettersi al riparo.
Per questo molte persone hanno trovato rifugio dentro gli ospedali, che vengono percepiti ancora come sicuri nonostante sappiamo che moltissimi ospedali sono stati distrutti.
L’ospedale non è più un luogo sicuro, forse è un posto dove trovi ancora dell’acqua e hai un tetto sopra la testa ma nessuno ti garantisce che non crolli da un momento all’altro”.
Proprio in questi giorni Medici Senza Frontiere, ha pubblicato il rapporto denuncia Morti silenziose a Gaza. La distruzione del sistema sanitario e la lotta per la sopravvivenza a Rafah.
Cosa denuncia il rapporto?
“Le strutture sanitarie trattano oggi prevalentemente feriti da grandi traumi, che arrivano costantemente
per i bombardamenti e gli attacchi; ma per tutto il resto abbiamo dovuto staccare la spina.
Ci sono tutta una serie di morti che non si attribuiscono mai alla guerra ma per le quali, di fatto, la causa è la guerra stessa, perché non si trova più accesso a quelle cure indispensabili, per esempio ai pazienti che hanno bisogno di una dialisi. Le malattie croniche, cardiologiche, i tumori, continuano anche se c’è la guerra, per tutte queste persone non c’è letteralmente più possibilità. Il rapporto denuncia proprio queste morti, conseguenza della distruzione del sistema sanitario. Uno dei primi giorni che ero lì sono andato in pediatria, dove sono 4 o 5 i bambini per letto. A volte c’è denutrizione, ma chi ha bisogno di un rapporto nutrizionale speciale non potrà avere spazio, non c’è possibilità, finirà fra coloro che non possono essere curati. È tremendo, ma è così.
Pensate, se vostro figlio domani ha la polmonite lo portate dal vostro medico. Vi dà l’antibiotico e lui guarisce. Tutto questo a Gaza non esiste più… È uno dei motivi per cui come Medici senza frontiere non ci siamo focalizzati solo sulla traumatologia, ma abbiamo cercato di allestire delle cliniche di assistenza primaria, quasi come medico di base”.
Due stati e due popoli?
“Che sentimento di pace potranno coltivare persone che hanno perso tutto e tutti? Non conosco persona, collaboratore, che in questo conflitto non abbia perso qualche familiare o parente. Quando qualcuno firmerà finalmente la pace, che cosa accadrà a chi è rimasto solo, senza più nessuno e magari senza le braccia o le gambe?
Siamo certi che penserà alla pace?”.
È utile il riconoscimento della Palestina come Stato?
“Se non c’è Stato, sei una persona senza diritti. Se vai all’estero, il tuo passaporto è come carta straccia, non puoi essere riconosciuto come rifugiato, profugo… Una realtà di cui non si parla non esiste. Se non riconosci la Palestina è come dire che non esiste il problema, ma il problema c’è.
Il non fare, lo stare a guardare senza intervenire l’abbiamo già visto nei Balcani, in Ruanda, e in tante parti del mondo. Li abbiamo fatti massacrare tutti e troppo tardi siamo intervenuti.
Come facciamo a dire di non essere responsabili?
A Gaza è sepolta la gente, i morti, i feriti, l’umanità, la democrazia, la diplomazia, ma cresce nel mondo l’ipocrisia”.
Come se ne esce?
“L’unica cosa che so, è che se ne esce troppo tardi”.