Alle Wiener Festwochen La clemenza di Tito secondo Milo Rau, dove l’opera di Mozart diventa un pretesto
VIENNA, 22 maggio 2024 – Nel libretto della Clemenza di Tito l’intenzione di Metastasio era celebrare la liberalità del monarca illuminato, anche se Mozart quando lo mise in musica nel 1791 – oltre mezzo secolo dopo la prima intonazione di Caldara – era più interessato a definire gli aspetti psicologici dei personaggi che a valorizzare il lato politico della vicenda. Oggi il nostro sguardo è assai più disincantato nei confronti del potere: eppure questo estremo capolavoro mozartiano (fra gli ultimissimi lavori del compositore) può ancora offrire occasioni per riflettere sul presente.
L’ambizione dello svizzero Milo Rau – da quest’anno direttore artistico delle Wiener Festwochen, ospitate nel quartiere viennese dei musei e da lui trasformate in una “Freie Republik” – è quella di rendere la capitale austriaca una sorta d’incubatrice del secondo modernismo, sulla scia di quello che caratterizzò Vienna nei primi anni del ventesimo secolo; e questo spettacolo inaugurale, nato per Ginevra e adesso adattato per il festival viennese, reca appunto la firma registica di Rau. Si tratta di una radicale decostruzione della Clemenza di Tito: una lettura che ambisce a interrogarsi sul significato dell’arte e, soprattutto, del suo rapporto con il potere. Il risultato – ben lontano dalla classica messinscena operistica – è in realtà un happening teatrale in cui s’inseriscono occasionalmente brani musicali, tanto che non viene rispettata neppure l’originaria successione dei brani. Così la prima scena che si ascolta è quella del perdono generale, su cui Mozart chiude l’opera.
Secondo Rau il fulcro sono invece le vicende di migranti più o meno rocambolescamente approdati a Vienna, che raccontano in prima persona le loro vicende, anche se rappresentate in modo antioleografico – anzi, nello spettacolo la crudeltà serpeggia ovunque – nel tentativo di rispondere all’interrogativo di fondo se l’arte abbia un’utilità sociale o non contribuisca, piuttosto, a rafforzare lo “status quo”. Ci sono pertanto citazioni iconografiche ben precise, come il famoso quadro di Delacroix sulla libertà che guida il popolo (qui a sventolare la bandiera rossa non è una donna, ma un nero arrampicato sui cadaveri dei nemici bianchi), o l’altrettanto celebre dipinto di David, dove il posto di Marat è preso dallo stesso Tito. Del resto nello spettacolo anche l’imperatore romano viene rappresentato come un pittore o, forse, un mercante d’arte alla ricerca di qualche nuovo talento da scoprire e, dunque, da trasformare in merce. La scena rotante di Anton Lukas, che alterna un interno borghese a una squallida baraccopoli in cui vivono accampati dei senzatetto, non fa che sottolineare ancor più la distanza tra questi mondi, dove anche l’intenzione di entrare in empatia con gli emarginati è destinata a fallire.
Nel complesso si prova però una sensazione di stordimento visuale, in cui diventa faticoso seguire una trama di storie sempre più aggrovigliata e dove – a complicarne ulteriormente la leggibilità – scorrono dei video con le narrazioni delle accidentate vicende personali dei migranti e degli stessi interpreti vocali, tutti rigorosamente non austriaci. A farne le spese, purtroppo, è soprattutto la musica di Mozart. Nessuno dei personaggi riesce a stagliarsi con le sue reali caratteristiche, sicché la drammaturgia psicologico-vocale (sempre calibratissima nei lavori mozartiani) resta costantemente in ombra. Un vero peccato, perché Thomas Hengelbrock trae magnifiche sonorità dalla Camerata Salzburg e dallo splendido Arnold Schönberg Chor, preparato da Erwin Ortner: basterebbe pensare allo straziante finale, che ovviamente non ha nulla di encomiastico, dove il suono – prima di scomparire – si assottiglia fino a stemperarsi in sonorità sempre più lievi e sfumate.
Fra gli interpreti il più a suo agio è apparso un veterano come il tenore Jeremy Ovenden, che ha sostenuto senza cedimenti, e con un coinvolgimento non sempre facile da ottenere in un simile contesto, l’impegnativo ruolo di Tito. Accanto a lui il mezzosoprano russo Anna Goryachova è stata un Sesto molto espressivo e assai duttile in scena. Vocalmente un po’ sbiadita il soprano polacco Anna Malesza-Kutny, alle prese con l’impervia altimetria vocale di Vitellia, mentre il mezzosoprano olandese Maria Warenberg ha disegnato Annio, efficace soprattutto nella sua ultima aria. Nell’impaginazione approntata da Rau esce invece ridimensionatissimo il personaggio di Servilia, affidato alla graziosa Sarah Yang, mentre è assai più presente in scena il basso Justin Hopkins, cui però difettavano la rotondità e la morbidezza necessarie all’aria di Publio.
Se nello spettacolo la musica di Mozart appare disinnescata, anche sul fronte ideologico i conti non sempre tornano: l’interrogativo se i politici – o forse, in modo più sotterraneo, qualche lobbista – usano l’arte come strumento di potere non trova adeguata risposta. Forma artistica un tempo popolarissima, almeno fino all’avvento del cinema, il teatro d’opera non può essere liquidato come espressione borghese: non avrà il compito di salvare la società (oggi, questo è meglio lasciarlo alle organizzazioni umanitarie), ma ha sempre favorito riflessioni, talvolta assai potenti. E seguire le tracce di un genio come Mozart potrebbe essere del tutto “rivoluzionario”, senza alcun bisogno di destrutturarlo.
Giulia Vannoni