IL TEMA. Un centinaio le strutture che estraggono petrolio e gas in Adriatico, che a fine vita dovranno essere demolite. Ma c’è chi ne ipotizza la conversione ad altri usi
I“giganti del mare” possono avere una seconda vita?
Com’è noto le piattaforme estrattive di petrolio e gas situate in mare (offshore) al termine della propria attività devono essere dismesse. Quello della loro gestione, però, è un tema che nell’epoca attuale diventa più complesso: oggi, infatti, la sensibilità collettiva nei confronti della tutela ambientale e della transizione energetica è (giustamente) sempre crescente, portando a ragionare su possibili alternative per quanto riguarda il “fine vita” di queste grandi e numerose strutture che popolano i mari italiani, nell’ottica di riconvertire piuttosto che eliminare.
Un discorso che diventa particolarmente centrale sul territorio romagnolo: proprio in questi anni il Parlamento ha previsto, nell’ambito del PNRR e del cosiddetto Decreto Fondone, di destinare risorse (70 milioni) alla realizzazione di un polo energetico “green” nell’Adriatico, in particolare nel ravennate, attraverso la riconversione delle piattaforme estrattive di petrolio e gas. E non è certo strano, se pensiamo che delle circa 140 piattaforme presenti al largo delle coste italiane, un centinaio sono localizzate nell’Adriatico, rappresentando la maggior concentrazione di queste strutture nel Mediterraneo. Di queste, una decina sono presenti e afferenti alla Capitaneria di Porto riminese. Il tema, dunque, interessa da vicino Rimini e la Romagna.
Futuri possibili
Cosa fare quindi delle piattaforme in mare? Quali le possibili alternative alla dismissione? Domande dirette alle quali risponde, analizzando i possibili scenari, il naturalista, divulgatore scientifico ed ex europarlamentare riminese Marco Affronte. “ Le piattaforme possono avere diverse vocazioni. – spiega – Ad esempio c’è la possibilità di utilizzarle come installazioni dedicate alla ricerca. In questo senso possono diventare punti dai quali svolgere attività di osservazione (pensiamo ai cetacei) oppure vere e proprie analisi sottomarine, attraverso strumentazioni per monitorare il Ph delle acque, temperature, correnti e attività connesse, in modo da dare un importante contributo a livello scientifico”. Cosa dire dell’impatto sull’ambiente marino? “ Ci sono anche opportunità dal punto di vista ambientale. – prosegue Affronte – I pilastri di queste strutture col tempo diventano importanti punti di aggregazione di biodiversità, venendo abbondantemente ricoperti da forme di vita sottomarina, in particolare organismi incrostanti. Un fattore che può diventare importante,
oltre che per la biodiversità, anche in ottica turistico-ricreativa: pensiamo alla possibilità di svolgere presso queste strutture gite ed escursioni subacquee, per scoprire quell’ecosistema marino che è andato a ‘colonizzare’ la parte immersa delle piattaforme”.
Tutela della biodiversità e nuove forme di turismo, due elementi rilevanti soprattutto guardando al Riminese. Ma in ottica più generale diventa centrale, come detto, anche il tema della transizione energetica: è possibile pensare a una seconda vita per queste piattaforme che sia legata alla produzione di energie rinnovabili? O si tratta di strutture troppo diverse? “ Non è facile. – aggiunge l’esperto – Se pensiamo all’eolico, ad esempio, si tratta di strutture piuttosto incompatibili, sulle quali non ha praticamente senso installare le pale necessarie alla produzione. Il fotovoltaico in mare oggi viene utilizzato attraverso strutture galleggianti per le quali l’unica compatibilità con le piattaforme che riesco a immaginare è come punto di ancoraggio. Per quanto riguarda l’idrogeno, invece, sarebbe necessario collegarsi a un impianto di produzione al fine di convertirne l’energia in idrogeno, ma sinceramente non so se, a livello tecnico, la struttura di queste piattaforme lo consenta”. Ad oggi, quindi, alcuni scenari sono possibili, ma restano ancora marginali rispetto alla via della demolizione?
“ Occorre sottolineare che, posto l’importante numero di piattaforme presenti in mare, non è necessario che per tutte si trovi una forma di riutilizzo. – conclude Affronte – È una questione che oggi ha rilevanza principalmente dal punto di vista economico per i proprietari: la dismissione di queste strutture ha costi molto elevati, quindi i proprietari (come ad esempio Eni) possono pensare a eventuali forme di riutilizzo. Per alcune può rappresentare, come visto, un’opportunità, ma si tratta comunque di una minoranza ridotta. Per le altre rimane valida la via della dismissione”.
L’attenzione dell’Università
Anche il mondo accademico ha rivolto la propria attenzione al tema. Con un particolare riferimento a Rimini e alla sua ormai pittoresca vicenda dell’Isola delle Rose, spunto utilizzato dalla dottoressa Elisa Dallavalle, ricercatrice in Ingegneria Civile dell’Università di Bologna, per un’analisi ad ampio raggio sulle possibilità di riutilizzo delle piattaforme estrattive presenti in Adriatico, nell’ambito di una collaborazione tra UniBo e l’Unione dei Giornalisti Italiani Scientifici (UGIS). “ La vicenda dell’Isola delle Rose si concluse con la distruzione della piattaforma e lo
stravagante episodio venne archiviato come una buffonata. E se non lo fosse? – è lo spunto della dottoressa Dallavalle – In realtà, l’idea dell’ingegner Rosa è quanto mai attuale.
Nel solo mare Adriatico sono presenti oltre 90 piattaforme (la maggiore concentrazione del Mediterraneo!) e circa 40 di esse dovranno essere dismesse nell’imminente futuro.
Ma se demolirle non fosse la soluzione più sostenibile come immaginiamo? Da alcuni anni aziende dell’energia e politici si stanno interrogando sull’opportunità di destinarle ad altri usi, anziché smantellarle.
Sono numerose le attività che è possibile svolgere sulle piattaforme nell’ottica dell’economia circolare. illustra la ricercatrice – Tra esse vi sono ad esempio la tecnologia dell’accrescimento minerale, impiegata per proteggere le strutture dalla corrosione, estendendone la vita utile e riducendo i costi di manutenzione; l’itticoltura e la maricoltura (ossia l’allevamento di pesci, molluschi e oloturie); le attività di ricerca scientifica e il monitoraggio ambientale attraverso tecnologie innovative come il drone anfibio o il robot sottomarino Clean Sea; l’installazione di sistemi innovativi per la produzione di energie rinnovabili, che servono per alimentare le attività sulla piattaforma ma possono anche essere stoccate o inviate a terra; la desalinizzazione; la produzione di idrogeno verde; e perfino le visite didattiche e il turismo subacqueo: infatti, le strutture delle piattaforme si trasformano spesso nell’habitat ideale per le comunità marine, tanto che la loro demolizione per ripristinare il fondale antecedente alla costruzione comporterebbe al contrario una notevole perdita di biodiversità”.