I trattori che hanno sfilato per le strade di mezza Europa hanno riportato il tema dell’agricoltura, quindi dell’alimentazione, in primo piano. Il caso, poi, che protestassero tutti segnala che tanti problemi sono comuni, anche se le aziende agricole non sono tutte uguali, a cominciare dalla dimensione. La provincia di Rimini è nota come località turistica, e in quanto tale consuma molto, perché deve sfamare tante bocche (sono più di 3 milioni l’anno i visitatori), molto meno come zona agricola. Che, infatti, non è. Soprattutto se paragonata a Forlì-Cesena e Ravenna. Il valore aggiunto che crea l’agricoltura riminese è poco, appena sopra l’uno per cento del totale. Un apporto che si è dimezzato rispetto ad un paio di decenni fa e che certo non è sufficiente a sfamare autoctoni e turisti. Ciononostante è una fonte importante di lavoro per oltre 4.000 persone, di cui più della metà operai dipendenti, quasi tutti a tempo determinato, ed il resto autonomi (coltivatori diretti). Significativo il contributo degli immigrati non comunitari: 4 su 10. E anche delle donne: 1 su 3. Altra storia nella provincia di Forlì-Cesena e Ravenna, dove l’agricoltura, prevalentemente dedite alle colture orto frutticole e vitivinicole, impiega rispettivamente 25.000 e 24.000 persone, con oltre 6.000 immigrati non comunitari a testa. Braccia da lavoro fondamentali, dalla semina alla raccolta dei prodotti. Campo dove, purtroppo, è apparso, da qualche anno, anche il fenomeno del caporalato. Gestito, spesso, da finte cooperative che, approfittando della non conoscenza dei loro diritti da parte degli immigrati, pagano anche 4 euro l’ora, spesso per dieci e più ore di lavoro giornaliere. Accade, anche se negli scaffali dei supermercati non si vede.