Il tema non è dei più originali, ma ripeterlo giova. Le donne, per poter lavorare o avviare una impresa, hanno bisogno di servizi che le accompagnino e supportino. Il primo e sicuramente il più importante, soprattutto quando si ha intenzione di mettere su famiglia, è sapere dove poter lasciare i propri figli. Perché se a Rimini e in Italia poche donne lavorano (purtroppo, nel 2023, l’occupazione femminile riminese è ulteriormente diminuita, tornando sui livelli del 2017), dipende anche, al netto dell’offerta di posti, dalla carenza di servizi. A cominciare da quelli per l’infanzia. Ma la provincia di Rimini, messa a confronto con il resto dell’Emilia-Romagna, non brilla e compare ultima in regione, anche se in recupero: i bambini e le bambine di 0-2 anni che possono usufruire di un posto in un nido o simile, comunale o convenzionato, sono appena 24 ogni 100, quando a Forlì-Cesena sono 28, a Ravenna 32, a Bologna addirittura 39, a Modena 30, a Reggio Emilia e Parma circa 28. La media regionale è 31 ogni 100. Come è ampiamente noto l’altra faccia di questa carenza è costituita da donne che non possono lavorare o sono costrette a licenziarsi alla nascita di un figlio, anche se eufemisticamete vengono chiamate dimissioni volontarie. In realtà non hanno alternative, colpa anche di troppi imprenditori restii a concedere, più per ritrosia culturale che per ragioni di produzione, quella flessibilità di orario che sarebbe necessaria. Adesso ci sono anche i fondi europei del Pnrr (Piano Nazionale Riprese e Resilienza) e i Comuni in deficit di servizi dovrebbero approfittare. Solo per gli asili nido (0-2 anni) sono previsti, in Italia, finanziamenti per 2.4 miliardi di euro, più altri 600 milioni per le scuole d’infanzia (3-6 anni). Ne sta usufruendo il Comune di Rimini che ha in cantiere, finanziati con 7 milioni proprio dal Pnrr, la costruzione di due nuovi asili a Viserbella e Marebello, oltre al rifacimento di un terzo in zona Ina-Casa. Asili che gli consentiranno, alla fine dei lavori prevista per il 2026, di raggiungere, anche se in ritardo, l’obiettivo europeo di 33 posti ogni 100 bimbi minori di due anni, già fissato dal Consiglio europeo di Barcellona nel 2002. Obiettivo che nel frattempo è stato però innalzato a 45 ogni 100 bambini entro il 2030. Mancano solo sei anni. Tutto questo accade in un paese, l’Italia, che destina, nel 2021, alla Politiche sociali il 6.3 per cento del Pil, quando in Spagna è il 7.2 per cento, in Germania l’8.2 per cento, in Francia il 10 per cento, con una media eurozona dell’8.1 per cento (Welfare Italia, Rapporto 2023). Eppure, un aumento dei servizi per l’infanzia potrebbe favorire la crescita dell’occupazione femminile tra 0.4 e 1.5 punti percentuali (per l’Italia, vuol dire tra 80.000 e 300.000 donne in più). Scriveva, la premier Meloni, nel suo programma per le politiche del 2018 e del 2022: “La famiglia naturale è al centro dello Stato sociale, metteremo in campo il più imponente piano di incentivo alla natalità per uscire dall’inverno demografico, a partire dagli asili nido comunali aperti fino alle 19 per consentire alle mamme e papà di conciliare la famiglia col lavoro”. Promessa, al momento contraddetta dal taglio dei posti, da 264 a 150.000, previsti in origine dal Pnrr. La solita differenza tra dire e fare. Ma c’è tempo per rimediare.
Lavoro, nel 2023 la provincia ha perso mille occupati. Quasi tutte donne
La cattiva notizia è che nell’anno appena trascorso, cioè il 2023, al contrario della propaganda e forse anche delle attese (il turismo non ha fatto faville, ma è andato meglio dell’anno prima), la provincia di Rimini continua a perdere occupati: esattamente mille in meno sul 2022. Rinuncia praticamente tutta a carico dell’occupazione femminile. Già abbondantemente e storicamente penalizzata. Come regalo per la festa della donna, dove la retorica raramente si confronta con i fatti, non è proprio il massimo. Ci si può consolare osservando che la stessa cosa è avvenuta in provincia di Ravenna, dove gli occupati sono scesi da 172 a 170 mila, ma non a Forlì-Cesena dove, invece, i posti di lavoro sono cresciuti di un migliaio di unità, in linea con quel leggero miglioramento che c’è stato anche in regione. Se, però, prendiamo come punto di riferimento il 2019, cioè l’anno prima che il Covid si abbattesse sulla vita delle imprese e delle persone, la provincia di Rimini è indietro di 3.000 occupati, che diventano 7.000 se il paragone si fa con il 2018, quando l’occupazione provinciale raggiunge il massimo storico. Trainato fondamentalmente da un forte incremento del lavoro femminile. Hanno seguito lo stesso andamento anche le altre provincia dell’Emilia-Romagna? Non esattamente. Oltre a Rimini, non hanno ancora recuperato il terreno perso, rispetto al 2019, Forlì-Cesena, Ravenna, Reggio Emilia, Bologna e Ferrara, ma hanno già fatto meglio Piacenza, Parma e Modena. Ma per Rimini esiste un’aggravante in più: storicamente, quindi non da addebitare al Covid o a qualche altra congiuntura sfavorevole, le persone che trovano lavoro ogni cento che potrebbero e sarebbero disponibili, quello che viene definito il tasso di occupazione, sono sempre meno che altrove. Esiste, in altri termini, una carenza strutturale di occasioni di lavoro. Che colpisce in modo particolare le donne. È questo il significato di un tasso di occupazione che in regione è prossimo al 71 per cento, mentre Rimini naviga sul 65 per cento, che scende al 57 per cento per le donne. Quando il lavoro scarseggia è chiaro che crescono i disoccupati, infatti sono aumentati di 2.000 unità.