RIMINI NEL ’400. Erano gli ordini emanati dal governo cittadino, gridati dai banditori e accompagnati dal suono della tromba o del tamburo. Scene pittoresche, ma anche strumenti per riscoprire la società di un’altra epoca
I grandi eventi della storia del territorio sono noti, raccontati e approfonditi a più riprese. Ma come respirare la quotidianità, la vita ordinaria di ogni giorno nella società di un’epoca che fu? Una risposta arriva dal libro Fra Arte e Storia – Articoletti della buonanotte (ilPonte Edizioni, 2018), in cui lo storico d’arte riminese Pier Giorgio Pasini illustra la vita romagnola del Quattrocento attraverso i bandi, ossia gli ordini emanati dal governo cittadino, dai quali è possibile estrapolare e ricostruire l’organizzazione amministrativa ed economica dei comuni sotto il dominio malatestiano. Riportiamo, di seguito, il racconto in forma integrale.
“Un rullo di tamburo e un Sintite! proclamato per almeno tre volte come prologo a una serie di avvisi, più o meno urlati in una lingua difficilmente comprensibile: questa cerimonia si vedeva spesso nei film neorealisti ambientati nell’Italia meridionale del dopoguerra. Ma non era tipica né di quei luoghi né di quei tempi.
L’omino col tamburo, infatti, non era altro che un ‘ banditor’; e i banditori esistevano ovunque già nel medioevo e sono esistiti ovunque almeno fino all’inizio del secolo scorso: avevano il compito di ‘gridare’ gli ordini emanati dal governo della comunità e per richiamare l’attenzione della gente usavano il suono di un tamburo o, ancora più spesso, di una tromba.
Quasi tutti i giorni c’era un bando da proclamare, di maggiore o minore importanza: per la scadenza di una tassa, per una corvè, per un dazio nuovo, per una taglia su qualche delinquente, per un mercato consigliato o vietato e via dicendo. Quello che oggi le istituzioni fanno con la carta stampata, attraverso i manifesti o i giornali, un tempo si faceva con i banditori. Naturalmente i bandi, in quanto documenti ufficiali, venivano registrati diligentemente nelle cancellerie comunali; questo fatto però non sempre è bastato a salvarli. Quelli riminesi superstiti sono pochissimi.
Purtroppo, perché avrebbero potuto fornirci una grande quantità di informazioni di prima mano sulla società e sulla vita dei secoli passati. Cesena in questo è stata molto più fortunata di noi: infatti ha conservato (nella locale sezione dell’Archivio di Stato) due libri contenenti la registrazione di ben 409 bandi, emessi fra il 1431 e il 1473. Li ha trascritti e pubblicati Claudio Riva nella collana di Fonti e saggi di Storia regionale dell’Università di Bologna e meritano di essere qui segnalati per il loro interesse anche riminese. Non tanto perché molti sono stati emanati congiuntamente da tutti e tre i fratelli
Malatesti e alcuni dal solo Sigismondo; né perché talvolta il podestà o il cancelliere che li hanno scritti e registrati, e il banditore che li ha banditi, erano riminesi; quanto perché dovevano essere analoghi a quelli scomparsi emanati a Rimini negli stessi anni.
Claudio Riva, nel presentarli, chiarisce la loro natura e sottolinea il loro interesse per la comprensione della società e della civiltà del Quattrocento. Inoltre ricostruisce sinteticamente, ma con molta chiarezza, l’organizzazione amministrativa ed economica del comune tanto sotto la signoria malatestiana che sotto il governo papale. È un invito a effettuare un viaggio nel tempo attraverso fonti preziose e curiose. Nei bandi si trova di tutto: dai divieti di caccia (con i nomi della selvaggina allora esistente nelle nostre colline: lievori, cioè lepri, caverioli, cioè caprioli, porci cengiari, cioè cinghiali, e cervi) e di uccellagione ( oxellare a faxani eaperdice) con reti e con fuoco, a quelli di pascolo nelle terre del signore e del comune; dalla regolamentazione dei raccolti alla proclamazione delle tregue durante le guerre.
Si badi: i bandi non erano le leggi fondamentali della città e dello stato, che erano registrate negli Statuti; quanto piuttosto specificazioni parziali di esse, regole per applicarle a seconda delle occasioni; ma anche aggiornamenti, norme transitorie per salvaguardare la sanità o l’ordine pubblico, disposizioni riguardanti le arti e l’agricoltura. A volte riguardavano semplicemente la ricerca di cose, di animali, di persone. Per esempio il 5 aprile del 1435 il vicario ordina di consegnargli Agnese, una meretrice tedesca, e minaccia una multa a chi la tiene nascosta; il 12 febbraio dell’anno dopo un sarto, il maestro Antonio di Barbiano, promette una mancia a chi gli riporterà una preziosa cintura di seta verde guarnita d’argento, smarrita a Cesena; il 2 settembre il podestà fa cercare un cane da caccia, anch’esso smarrito e il 14 giugno del 1453 una cavallina baia con una stella in fronte, forse rubata. Ma a volte si cercava ben altro: tra il novembre del 1453 e il febbraio del 1454 si cercano, vivi o morti, Giacomo e Piero de’ Bonci e Baldassarre da Mensa; sulla loro testa è una taglia di 100 scudi d’oro; ogni informazione sul loro conto ne vale 50. Il 23 agosto del 1460 per espresso ordine di Malatesta Novello si chiedono informazioni per smascherare chi aveva ferito ‘ Ventura speciale et fratello di dom Cristofano da Buoro’; il 7 dicembre dello stesso anno si cercano gli assassini del ‘ figliolo de Meluzo zudeo da Cesena quale è stato morto’ e si promettono 25 ducati d’oro. Tre giorni dopo il signore fa rinnovare il bando e raddoppiare la taglia, promettendo l’impunità a un eventuale complice denunciante. Il ‘pentitismo’ viene incoraggiato in tutti i modi; per le delazioni si promettono premi e si assicura sempre il segreto più assoluto.
Sembra che anche allora il sistema funzionasse. Certo anche allora si verificavano scandalosi abusi di potere, perseguiti secondo le norme statutarie ribadite da frequenti bandi indirizzati particolarmente a notai, dazieri, gabellieri, ufficiali del fisco; i bandi insistono particolarmente sul dovere degli ufficiali di applicare per intero, senza sconti e favoritismi, le tariffe dei dazi e delle multe, di non accettare mance, di rilasciare gratis le ricevute per ogni somma riscossa, e anche di non assumere per i lavori pubblici i propri parenti. Come è ben noto, per appena una decina di giorni, subito dopo la morte di Malatesta Novello (20 novembre 1465), fu ‘signore’ di Cesena Roberto Malatesta, figlio di Sigismondo. A quei giorni risale il suo unico bando cesenate. Si trattava di un patetico tentativo di accattivarsi la simpatia dei cittadini concedendo un’ampia amnistia; evidentemente sperava di poter tenere la signoria della città, che lo zio era stato costretto a promettere in restituzione al Papa. Roberto aveva fatto ‘gridare’ il suo bando da ben due banditori, ‘ alta voce sono tubarum binarum per loca publica’; ma tutto quel clamore non servì a cambiare il destino suo, né quello della città. Le truppe del Papa si affrettarono a invadere Cesena e i Cesenati preferirono dare retta alle bolle papali, tempestivamente spedite da Roma: non promettevano gloria, ma pace, libertà e soprattutto esenzioni fiscali”.