È andata in scena a Roma Salome di Richard Strauss, con la regia di Barrie Kosky e l’eccellente direzione di Marc Albrecht
ROMA, 14 marzo 2024 – Una sorta di preludio costruito su rumori registrati, della durata di pochi minuti, è stato scelto dal regista Barrie Kosky per aprire Salome. Allestito per la stagione dell’Opera di Roma, lo spettacolo proveniente da Francoforte, già premiato in Germania, ha fatto registrare ogni sera il pienone. L’allestimento, anticonvenzionale e per molti aspetti provocatorio, si basa sull’idea che la Luna, testimone muta e oggettiva, funga da lente per osservare i torbidi anfratti della psiche. Una scelta (peraltro evocata fin dalla prima scena del fulminante dramma musicale di Richard Strauss) che appare tanto più significativa per un’opera quasi sperimentale, che mostrò un carattere profondamente innovativo fin dalla première di Dresda, stabilendo un’ideale sintonia con quei fermenti culturali e scientifici che consacrarono il 1905 come annus mirabilis.
I personaggi vivono il proprio delirio – non immune da risvolti grotteschi – in una scatola scenica nera e buia, dove arrivano i soli raggi lunari, sotto forma di algidi occhi di bue (luci di Joachim Klein), che illuminano di volta in volta l’interprete coinvolto nel canto. Si crea così una drammaturgia visiva che passa attraverso le espressioni allucinate di volti e corpi (è Katrin Lea Tag a firmare la scenografia, pressoché inesistente, e i costumi). In questo incubo notturno troneggia, alla corte di Erode, la capricciosa Salome, che non è una creatura mostruosa come spesso viene rappresenta, ma un’adolescente crudele e viziata invaghitasi prima della voce, e poi del corpo, di Giovanni Battista (Jochanaan nel testo tedesco). Salome instaura con il profeta un rapporto ambivalente: lo desidera con crudele ostinazione e non arretra fino a quando riesce a possederlo, seppure al prezzo di un’inquietante necrofilia. Nello spettacolo, poi, appare ancor più spiazzante che l’interprete di Salome sia anagraficamente lontana dalla viziosa giovane del dramma di Oscar Wilde da cui Strauss ha tratto il libretto. Lo straniamento vale anche per Jochanaan, che – a torso nudo e con i boxer extralarge – è davvero al di là di ogni tentazione erotica, come pure il dissoluto Erode con i suoi tentativi, patetici, di sedurre la figliastra.
In questo procedere per sottrazione, nel finale non compare il vassoio con il capo del profeta, ma la sua testa grondante sangue si solleva, in una macabra visione, appesa per i capelli a un gancio da macelleria: lo stesso che servirà a sostenere il cadavere di Salome. E anche quello che è l’episodio più problematico per i registi – la danza dei sette veli – viene trasformato da Barrie Kosky in un momento di allucinata e solipsistica solitudine, dove la protagonista estrae dal proprio ventre i capelli di Jochanaan, quasi fosse un nastro: estrema visualizzazione di un inconscio aggrovigliato e morboso.
Una visione registica così radicale potrebbe correre il rischio di scivolare verso la ripetitività, ma il pericolo viene scongiurato da una lettura musicale che riesce benissimo a reggerne l’impatto. Specialista del primo novecento, Marc Albrecht valorizza tutta la ricchezza coloristica della partitura straussiana e rende percepibile la potenza deflagrante di una musica dove coabitano la tradizione tardoromantica – di cui sopravvivono non pochi echi nell’ossessiva ripetizione dei temi – e le innovazioni di una scrittura vocale che spesso trascolora nello Sprechgesang. Il direttore tedesco ha staccato tempi incalzanti, mantenendo sempre un perfetto controllo dinamico (mai sentiti gli strumentisti del Teatro dell’Opera suonare in modo così preciso e con una compattezza da insieme cameristico), alternando morbidezze orchestrali, che sottolineano i momenti più lirici, a una violenza prossima al parossismo, senza sconfinare in sonorità reboanti né mai coprire gli interpreti vocali.
Anche i cantanti, tutti scenicamente ottimi, traggono vantaggio da questo sostegno orchestrale. A cominciare dal soprano Lise Lindstrom, che all’inizio sfoggia voce penetrante – dunque adatta a un personaggio adolescenziale – sebbene non riesca a mantenere la stessa continuità fino all’inquietante monologo finale: l’irregolarità vocale, però, in questo caso diventa una cifra espressiva. Il baritono Nicholas Brownlee plasma uno Jochanaam risonante ma senza le aggressività di tradizione, mentre il tenore John Daszak interpreta un Erode debitamente sgradevole anche sul piano visivo, soprattutto quando appare in camicia nera. Katarina Dalayman è un’Erodiade vocalmente querula, in caricaturale tailleurino chanel.
Efficaci Joel Prieto nel ruolo di Narraboth, il cui suicidio viene qui risolto da un letterale inghiottimento del personaggio nel buio, e Karina Kherunts, nella parte en travesti del paggio. Ben caratterizzati gli altri comprimari, anche se emergono solo fugacemente dalle tenebre o non arrivano neppure a fendere l’oscurità, restando fantasmatiche voci.
Giulia Vannoni