Per la stagione lirica veneziana un nuovo allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi e diretto da Manlio Benzi di Maria Egiziaca
VENEZIA, 10 marzo 2024 – Non ha una trama avvincente come un’opera, ma non bisogna stupirsene visto che è indicata come ‘mistero in tre episodi’. Tutta la forza teatrale di Maria Egiziaca sta nella musica, bellissima, di Respighi. Del resto la catarsi mistica della protagonista, così come delineata dal libretto di Claudio Guastalla, sembrerebbe più adatta a un’esecuzione oratoriale – la prima del 1932 a New York avvenne infatti in questa forma – anziché a una messinscena. Comunque la regia astratta di Pier Luigi Pizzi, che si limita a suggerire i tre luoghi dell’azione (Egitto, Terra Santa e deserto), ne esalta la staticità, sviluppandosi attraverso immagini di ieratica eleganza. E, così, aiuta a focalizzare ogni attenzione sulla partitura.
Lavoro tra i meno rappresentati di Respighi – presente nei cartelloni italiani quasi soltanto come autore sinfonico – è stato proposto a Venezia, al Teatro Malibran, in un nuovo allestimento nell’ambito del cartellone della Fenice, dopo che mancava nel nostro paese dal 1981. Totalizzante perno drammatico ne è Maria, una prostituta, che nel suo anelito verso l’assoluto passa attraverso una radicale espiazione: arriverà non solo a redimersi, ma ad affrontare la morte addirittura in odore di santità. Un peso nettamente inferiore hanno invece gli altri personaggi, funzionali soprattutto a definire la personalità della protagonista.
La profonda cultura musicale del bolognese Ottorino Respighi, che prima di stabilirsi a Roma aveva compiuto in gioventù un apprendistato europeo di ampio respiro, trapela dall’intera composizione: spesso sotto forma di effetti vagamente arcaicizzanti – in buca c’è persino un clavicembalo – e per questo tanto più suggestivi per una storia ispirata a leggende trecentesche.
Il direttore Manlio Benzi ha saputo trarre belle sonorità dagli strumentisti della Fenice. Nei due magnifici interludi orchestrali, che separano i tre pannelli di Maria Egiziaca, ha esaltato la ricchezza coloristica di Respighi, valorizzando quella patina di antico che emerge soprattutto nel carattere severo di certe pagine corali e fornendo, nello stesso tempo, un valido supporto ai cantanti. Ha poi sottolineato anche le ascendenze wagneriane di un’opera che si apre – esattamente come Tristano – con il canto di un marinaio: una suggestione cui non è indifferente neppure la regia, quando da un grande anello virtuale (realizzato attraverso proiezioni) fuoriesce un fuoco che sembra evocare il risveglio di Brunilde nella Tetralogia.
Protagonista il soprano Francesca Dotto, sempre a suo agio con un ruolo dalle molte sfaccettature e che cambia repentinamente nell’arco di pochissimo tempo: sensuale prostituta disposta a offrirsi ai marinai per pagarsi il viaggio; penitente convinta, consapevole del proprio peccato a seguito dei rimproveri del Pellegrino; infine personaggio quasi immateriale, che dopo la trasfigurazione ha perso ogni residuo di carnalità anche sul piano vocale, fino a trasformarsi quasi in pura astrazione. Accanto a lei, un bass-baritone come Simone Alberghini è apparso invece sottodimensionato per il duplice ruolo (concepito da Respighi come due facce d’una stessa medaglia) del Pellegrino e dell’abate Zosimo, che richiederebbe una grande vocalità baritonale.
Interprete del marinaio, oltre che del più circoscritto personaggio del lebbroso, il tenore Vincenzo Costanzo ha sfoderato sicurezza e un apprezzabile squillo. Meno significativi gli altri personaggi, anche se vale la pena citarli tutti: Michele Galbiati, Luigi Morassi, Ilaria Vanacore, William Corrò e la danzatrice Maria Novella Della Martira, controfigura della protagonista. Assai pregevole il contributo del Coro del Teatro La Fenice (ben preparato da Alfonso Caiani): disposto sulla balconata produceva un suggestivo effetto straniante, capace di aggiungere un ulteriore elemento di ieraticità all’esecuzione.
Valorizzata dalla qualità dell’esecuzione, dunque una riproposta interessante: rimette in circuito una stagione della musica italiana che le nuove istanze del dopoguerra avevano rimosso e, al contempo, stimola una riflessione sul labile confine tra opera da concerto e lavoro sinfonico-vocale occhieggiante al teatro. Riscoprire questo periodo potrebbe condurre a sorprese inaspettate.
Giulia Vannoni