In scena al Teatro dell’Opera di Roma il dittico che abbina Gianni Schicchi di Puccini a L’heure espagnole di Ravel
ROMA, 13 febbraio 2024 – Scomporre il Trittico pucciniano è un’operazione affascinante e, allo stesso tempo, difficile. L’intento è offrire la possibilità di un confronto ravvicinato tra il musicista italiano e la produzione operistica del suo tempo, per mettere in maggior evidenza – caso mai ce ne fosse bisogno – il genio di un compositore che sapeva guardare lontano, e senza ombre di provincialismo. Tant’è che la prima del Trittico fu a New York nel 1918.
Muovendosi in anticipo sull’anniversario pucciniano, il Teatro dell’Opera di Roma ha preso questa iniziativa fin dalla stagione scorsa, quando è stato inserito in cartellone un primo dittico, che abbinava due pagine musicali circa degli stessi anni come Il tabarro, primo pannello del Trittico, e Il castello del principe Barbablù di Bartók. Un confronto superato in modo brillante grazie all’intelligenza teatrale del regista Johannes Erath, che era riuscito a creare un’efficace liaison des scènes tra i due lavori.
Con la seconda tappa di questo Trittico ricomposto si è tentato di replicare gli esiti dell’anno prima, accoppiando Gianni Schicchi e L’heure espagnole, ‘commedia musicale in un atto’ di Ravel (1911): compositore che, nel proprio catalogo, annovera solo due opere. Si tratta di un accostamento peraltro già collaudato in altre occasioni e si giustifica anche con la stima – se non proprio l’ammirazione – che il collega francese provava per Puccini. I due titoli presentano entrambi risvolti surreali: da un lato, c’è il caustico cinismo del libretto di Giovacchino Forzano che, traendo ispirazione da un brevissimo episodio del XXX canto dell’Inferno dantesco, porta in scena l’ingordigia di parenti che si contendono i beni di un defunto; dall’altro, la commedia di Franc-Nohain utilizzata da Ravel, basandosi su equivoci boccacceschi che rimandano alla pochade, mette in mostra la più smaccata ipocrisia coniugale.
In questa nuova produzione la regia è stata affidata al berlinese Ersan Mondtag – autore anche delle scene, mentre i grotteschi costumi sono di Johanna Stenzel – che ha puntato soprattutto sugli aspetti visuali, creando un’ambientazione noir dalle venature sulfuree. Gianni Schicchi è ambientato in un sontuoso palazzo fatiscente, anzi proprio diroccato: relitto del comportamento predatorio di gente che pensa solo al denaro e non si rende conto di precipitare verso la distruzione (un gigantesco orologio dalle lancette ferme ricorda che il loro tempo è ormai scaduto). Nell’Heure espagnole si passa invece, con un cambio di scenografia solo parziale, a un’ambientazione post apocalittica descritta dai video di Luis August Krawen: questo, però, non sembra avere grandi conseguenze sui comportamenti di esseri umani che – anzi – se ne disinteressano completamente e continuano imperturbabili a reiterare gli stessi meccanismi. Quasi un apologo di quello che si è verificato durante l’esperienza della pandemia, da cui infatti non siamo usciti migliori.
Se la cornice visiva appare nell’insieme incongrua, lascia ancor più perplessi il versante musicale. Come sempre, con la bacchetta di Michele Mariotti, l’Orchestra del Teatro dell’Opera suona molto bene. Il direttore non punta a valorizzare le differenze tra le due opere e, semmai, l’impressione che se ne riceve è che tenda a renderle omogenee. La caratterizzazione dei personaggi è nell’insieme appena accennata, tanto più che non tutti i cantanti risultano all’altezza dell’impegnativo compito: lo Schicchi è un’opera di gruppo come poche altre e richiederebbe artisti consumati, capaci di cesellare – una ad una – ogni fisionomia del rissoso parentado: non è stata forse una buona idea utilizzare anche giovani cantanti allievi della scuola del Teatro dell’Opera, inevitabilmente ancora acerbi. In veste di protagonista svettava Carlo Lepore, ottimo attore vocale e sempre molto sonoro in tutta l’altimetria della scrittura. Tuttavia questo ruolo è scritto da Puccini per baritono e la presenza di un basso come Lepore ha un po’ spostato il baricentro musicale, sfasandone gli equilibri. Sono apparsi piuttosto sbiaditi il Rinuccio di Giovanni Sala, la Zita di Sonia Ganassi e il Simone di Nicola Ulivieri, mentre nei panni di Lauretta figurava l’ottimo soprano Vuvu Mpofu, cantante sudafricana che – fin dalla carnagione – esibiva la sua totale estraneità alla famiglia di Buoso Donati.
Nell’Heure espagnole, invece, i personaggi sono appena cinque, ma solo il baritono Markus Werba è apparso veramente in grado di dominare la propria scrittura vocale, tanto da sottrarre la scena pure al mezzosoprano Karine Deshayes: unica interprete femminile, che gestisce gli uomini – marito compreso – con la più cinica disinvoltura. Da far invidia al protagonista dello Schicchi.
Giulia Vannoni