PERSONAGGI Riminese, già Ministro della Cultura e grande esperto
Ricordo che nell’aprile del 2005, a Biella, in una mostra complessa e ricchissima dedicata alla lana, a cui avevo collaborato, Philippe Daverio, il curatore, salutò Antonio Paolucci come il più fiorentino degli italiani: l’accento, l’eloquio, la sciolta eleganza oratoria con cui dispensava le sue conoscenze profonde e le sue scintillanti suggestioni narrative, sembravano dargli ragione. Paolucci, d’altra parte, era noto soprattutto, come efficiente e operoso soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure e del Polo Museale Fiorentino, nonché come Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana. Eppure lo storico dell’arte volle, in quell’occasione, correggere garbatamente l’amico Philippe, ricordandogli che egli, di certo, era fiorentino di adozione, ma riminese d’origine e che teneva a quelle radici romagnole e adriatiche non meno che alla sua lunga carriera di studioso e di funzionario di altissimo livello. “ Figlio di antiquari – scrisse di sé nel 2012 -, con negozio in piazza Cavour e in via Sigismondo con l’Arco dì Augusto a due passi dal mio Liceo Classico Giulio Cesare, con il Tempio dell’Alberti negli occhi e nel cuore, nella vita potevo fare solo quello che ho fatto. Soprintendente a Venezia, a Verona, a Mantova, a Firenze, Direttore degli Uffizi e dei Musei Vaticani, Ministro dei Beni Culturali. E riminese sempre, nel profondo del cuore”.
Nato a Rimini il 24 settembre 1939 si era forbito la più fine e la più completa cultura artistica studiando a Bologna e laureandosi nel 1964 con Roberto Longhi: il maggiore storico dell’arte italiano (se non europeo) del Novecento. La sua carriera era iniziata al Ministero della Pubblica Istruzione nel 1969 e dal 1975 era proseguita in quello della Cultura, lavorando soprattutto nel mondo delle soprintendenze. Dopo l’incarico ministeriale, dal gennaio 1995 al maggio 1996, nel Governo Dini e in seguito al terremoto che aveva colpito l’Umbria e le Marche nel 1997, fu nominato Commissario straordinario per il restauro della Basilica di San Francesco ad Assisi. Furono quelli gli anni in cui Paolucci, divenuto socio della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini dal 1995, fu sempre presente nelle fondamentali iniziative culturali dell’Istituzione riminese che la vedevano come protagonista accanto al Comune e alla Diocesi, nella cura e nella valorizzazione di alcuni fondamentali momenti storici e artistici della città: il Trecento riminese, l’età di Sigismondo, col restauro del Tempio e del Castello, il Seicento, con un’ampia operazione di restauri, recuperi e puliture di opere.
Di una tale vastità e ricchezza di interventi mi si permetta di ricordare, come guardando un grande salone affrescato dal buco della serratura, quel poco a cui ebbi l’onore di collaborare nei suoi ultimi anni: nel 2009
scrivemmo a sei mani (Paolucci, Enzo Pruccoli e io), una guida Piero della Francesca e i tesori d’arte a Rimini: Piero fu un amore intenso dei suoi studi, a cui dedicò alcune brillanti monografie. Nel 2014, a Castel Sismondo, presentammo insieme gli Scritti di Augusto Campana dedicati alla storia, alla cultura e all’erudizione di Romagna e, in seguito, al Museo della Città, “Luigi Tonini”, si parlò del codice grandenighiano della Divina Commedia, custodito in Gambalunga.
Nel 2019, in un vero e proprio bagno di folla, nella chiesa di San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino), Paolucci illustrò, soprattutto, il volume, curato da Daniele Benati, consacrato agli splendidi affreschi di quel luogo sacro e spese parole generose verso chi, come me, vi aveva preso parte. Fu il suo ultimo viaggio riminese, non il suo ultimo dono.
Nel 2021, Paolucci accettò di presiedere, benché a distanza, il comitato scientifico della mostra riminese, a cura di Benati e mia, L’Oro di Giovanni per il restauro della magnifica croce di Mercatello, esposta in città dopo il 1935. Di questi ultimi episodi voglio ricordare il lascito morale e spirituale, in forma di severo monito ai suoi cittadini, affinché non dimenticassero gli strepitosi gioielli pittorici del Trecento riminese: “ In Sant’Agostino – diceva Paolucci – Rimini ha la sua San Miniato, la sua Santa Croce; in Neri e Giovanni, Giuliano e Pietro, Francesco e Baronzio, la città può ritrovare senza timore alcuno di confronti i suoi Cimabue e Giotto, i suoi Duccio e Simone Martini, i suoi Lorenzetti”.
Assieme al Tempio Malatestiano, il Trecento fu il suo grande orgoglio e il suo cruccio: gli sembrava che non si fosse fatto mai abbastanza per valorizzarlo a dovere. Spetta a noi accogliere, con il suo magistero di storico dell’arte, questo trepidante invito alla custodia e far propria, altresì, la giustissima ansia di gloria per i Riminesi che fu il desiderio anche di Yves Bonnefoy.
Alessandro Giovanardi