Al Teatro Alighieri di Ravenna L’incoronazione di Poppea composta da Monteverdi, prima opera a soggetto storico
RAVENNA, 21 gennaio 2024 – Poppea e Nerone, Ottavia e Ottone. Un quartetto che sembra incarnare i peggiori difetti dei potenti: ambizione smodata, sensualità morbosa, smania di vendetta, desiderio di onnipotenza. Mai un cedimento all’amore gratuito e ogni azione subordinata esclusivamente a cinici calcoli.
Primo melodramma di argomento storico, nel 1643 L’incoronazione di Poppea mette a nudo i vizi degli antichi, che agli occhi di Gian Francesco Busenello – ispiratosi per il libretto agli Annales di Tacito – erano ancora perfettamente attuali all’epoca della stesura del libretto. Ultima fatica operistica del grande Claudio Monteverdi, ormai settantacinquenne, ci sono fondate ragioni nel ritenere che non tutta la musica sia di mano sua: proprio a cominciare dallo splendido duetto Pur ti miro, pur ti godo, peraltro la pagina di massima notorietà di questo ‘dramma per musica in un prologo e tre atti’. Resta comunque un titolo di rara rappresentazione per l’elevato numero di personaggi – nonostante molti cantanti interpretino più ruoli – e soprattutto per la problematicità di un’esecuzione, che costringe il direttore a fare scelte inevitabilmente arbitrarie, senza poter contare sul solido supporto delle fonti (esistono due manoscritti diversi fra loro, a Venezia e Napoli, entrambi posteriori alla data del debutto). Con una durata di tre ore abbondanti, L’incoronazione di Poppea richiede grande impegno pure all’ascoltatore, ma se si ha la pazienza di seguire con attenzione le parole e lasciarsi guidare dalla musica, si viene ampiamente ripagati. È successo anche con lo spettacolo inaugurale della stagione di Ravenna, realizzato in coproduzione con il festival monteverdiano di Cremona: una felice simbiosi fra l’allestimento sobrio ed elegante di Pier Luigi Pizzi, una ben amalgamata compagnia di professionisti affidabili e una lettura musicale, quella di Antonio Greco, nitida e con qualche autentico momento di grazia.
Bisogna dare atto a Pizzi che, alle soglie dei novantaquattro anni (li compirà a giugno), riesce ancora a sorprendere. Se in tempi di abbondanza il repertorio barocco gli ispirava sontuose scenografie, ora disegna spazi quasi metafisici, altamente evocativi e affidati a pochissimi elementi. La scena fissa – spoglia e sobria – prevede due coppie di colonne su entrambi i lati del palcoscenico, per mettere a confronto mondi diversi: specchio dell’estrazione sociale dei personaggi. Al centro, un albero rinsecchito e un globo dorato (un pomo?), che forse è l’unico frutto di quella stessa pianta ormai prosciugata. Visivamente non si corre mai il rischio della staticità. A scongiurarla è il fluttuare delle vesti dei personaggi: le splendide tuniche femminili o i morbidi mantelli maschili, che non si limitano ad avvolgere i corpi, ma imprimono movimento e, nello stesso tempo, arricchiscono lo spettacolo di suggestive gamme cromatiche.
La compagnia di canto poteva contare su un ragguardevole quartetto protagonistico. Roberta Mameli è la bella Poppea, che – per la sua scalata al potere – punta decisamente sull’avvenenza ancor più che sull’espressività vocale. Tuttavia regala momenti di struggente lirismo, condividendoli con il sopranista Federico Fiorio, che tratteggia un ambiguo Nerone, nevrotico e stizzoso. È l’espressività il tratto distintivo del controtenore Enrico Torre, interprete di Ottone, mentre José Maria Lomonaco sfrutta il bel timbro autenticamente mezzosopranile per disegnare il personaggio di Ottavia. A questi personaggi si contrappone Seneca: con solida vocalità il basso Federico Sacchi riesce a imprimere autorevolezza morale alla figura del filosofo, l’unico ad aver in qualche modo a cuore la ragion di stato. Altre figure di rilievo sono la giovane Drusilla (un’intensa Chiara Nicastro) che, con la sua generosità verso l’amato, è forse la sola ad avere un atteggiamento positivo; il poeta Lucano, reso icastico da Luigi Morassi grazie al bel timbro tenorile; le nutrici delle due rivali: il contralto Candida Guida, nel ruolo di Arnalta, efficace soprattutto nel canto della ninna nanna a Poppea, e il controtenore Danilo Pastore, antesignano delle tante vecchie en travesti che costellano il teatro barocco. Ma tutti meriterebbero una citazione: dal baritono Mauro Borgioni, interprete di ben quattro ruoli, al soprano Paola Valentina Molinari, nelle vesti di Amore. Da notare che le sorprese sono venute proprio dai personaggi minori, spesso assai giovani, molti dei quali hanno dimostrato familiarità con il «cantar di gorgia», secondo lo stile dell’epoca.
Il direttore Antonio Greco li ha seguiti attentamente e, laddove possibile, ha cercato di puntare sull’espressività della parola. Per l’esecuzione si è attenuto al più agile manoscritto veneziano, ma ha inserito i ritornelli strumentali di quello napoletano, effettuando pure quegli inevitabili aggiustamenti funzionali all’organico dell’Orchestra Monteverdi Festival–Cremona Antiqua. Esattamente come si faceva in epoca barocca.
Giulia Vannoni