STORIE Portico del Vasaio, al teatro Tarkovskij la serata dedicata alle ripartenze
Un inizio drammatico non esclude il lieto fine, ma la rivincita può essere diversa da come la si immaginava. Emanuela e Gustavo, Luca e Youlsa ne sono testimoni
Se dagli occhi si capisce quando la vita ricomincia, quelli di Emanuela, Gustavo, Luca e Youlsa hanno il fuoco dentro. Sono loro i testimoni di come sempre si possa ripartire. Anche dentro situazioni drammatiche. Storie che abbiamo incontrato qualche sera fa al teatro Tarkovskij di Rimini. Sono infatti i protagonisti dell’incontro ‘ Quando la vita ricomincia’ (foto di Roberto Masi) proposto dal centro culturale ‘ Il Portico del Vasaio’ in collaborazione con l’associazione Papa Giovanni XXIII, moderati dal giornalista Giorgio Paolucci, autore del libro ‘ Cento ripartenze’. Raccoglie fatti “che sono la conferma di una bellissima frase della filosofa Hannah Arendt: gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per ricominciare”, spiega.
Gustavo ed Emanuela si conoscono in discoteca, nel 2005 si sposano e dalla loro unione nascono due figli. Iniziano episodi di maltrattamenti in famiglia.
Emanuela, vittima, spera ogni volta che quella sia l’ultima. Tenta di tenere tutto nascosto. Ma un giorno non ce la fa più.
Denuncia tutto ai carabinieri. Gustavo arriva in carcere e lì presto, dopo 25 giorni appena, riceve una proposta a cui risponde sì. Aderendo al progetto Cec, della Papa Giovanni, può lasciare il carcere per andare in comunità. Inizia a riflettere sul male commesso. Un lavoro di espiazione che lo porterà a riconciliarsi con la vita. “ Rielaborare i fatti mi faceva stare male, per la prima volta non per me ma per gli altri.Questo male, mi faceva capire quanto fosse grave quello che era accaduto”. Ripercorre le fasi della sua infanzia, le origini di un malessere nel rapporto con un padre violento.
“ Provava a curare con l’alcol la fragilità che sentiva dentro”. Un padre che oggi ha perdonato. “ È stato anche un babbo affettuoso e attento con tutti i suoi limiti, con tutta la sua semplicità”. In comunità, “ ho conosciuto tante persone che me lo ricordavano. Imparando a stare con loro, ho cambiato lo sguardo verso di lui”.
In questa storia c’è un secondo perdono, più profondo, quello di Emanuela. Dopo la denuncia, “ mi ero rifatta una vita, con i ragazzi stavamo bene, ricevevamo molto aiuto, da tutti”, racconta. “ Ma ero arrabbiata. Da sola non riuscivo a superare la paura e l’angoscia. Vivevo nel passato, ma non nei ricordi… facevano schifo”. Eppure, “ piano piano questa rabbia si è dissolta, grazie all’aiuto di Dio. Il perdono è un dono”. Emanuela usa una parola precisa per definire il rapporto instaurato con un prete. Usa la parola “ raccolta”, per raccontare dell’aiuto ricevuto. “ Se ti raccolgono, ti fanno comprendere ciò che hai vissuto, non giustifichi, ma prendi atto delle tue fragilità e di quelle dell’altro che ti ha ferito”. È come “ uscire da una gabbia, riesci a perdonare e finalmente sei libera di rifarti una vita serenamente, con tutte le tue forze, senza rabbia, rancore, paure”.
Gustavo ha iniziato a lavorare come operatore nella Cec. “ Bisogna restituire il bene ricevuto”, spiega. Da qualche mese, Emanuela lo ha ripreso in casa con i loro due figli. Due persone, prima che genitori, profondamente cambiate. Una famiglia che ricomincia. “ Anche lui ha potuto fare il suo percorso, riconoscere le sue fragilità, capire come affrontarle.
Abbiamo potuto riguardarci con uno sguardo libero”.
Don Oreste Benzi diceva che “ per stare in piedi bisogna mettersi in ginocchio”.
Don Luca Montini è un 36enne sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo. Bresciano, dinamico, sportivo.
Corre dieci chilometri ogni giorno, va in bici. Dopo un’esperienza in Cile, nel 2018 viene inviato in missione in Kenya, a Nairobi. Nel 2021, l’incidente, in moto. Sta andando a recuperare un’ambulanza, ma un pickup gli taglia la strada, lo investe. Don Luca riporta una feritamolto seria alla gamba. Riceve le prime cure d’emrgenza in Kenya, ma è presto trasferito in Italia. La situazione è talmente critica che deve essere amputato.
Una storia che racconta nel suo libro ‘ Con un piede in Paradiso’. Oggi insegna in un liceo a Brescia e, su richiesta dei medici che lo hanno curato, aiuta le persone che devono affrontare il dramma dell’amputazione.
Accettare non è stato semplice. “ I primi giorni dopo l’amputazione, non volevo scoprirmi la gamba. Provavo riluttanza a farmi vedere. Un misto di imbarazzo, di vergogna, di fatica ad accettare questa realtà. Non è facile mostrarsi nella propria debolezza, dire agli altri e a se stessi senza parlare che non siamo invincibili.
Noi viviamo oggi in una società che censura tutto questo, che censura la fragilità, che punta molto sulla performance e sul mito della perfezione”.
Duro lavoro e dolore, non solo fisico, hanno dominato nel periodo della riabilitazione. “ Viste le fatiche enormi, che pure davano frutti insperati, il mio medico un giorno mi ha detto: ‘Stai soffrendo moltissimo per tornare a correre: ma perché devi correre, dove devi andare?” Ed io mi son chiesto allora cosa contasse davvero, se tornare come prima oppure vivere bene il mio presente. Oggi ho chiaro che non si tratta di tornare alla vita di prima, di cui magari ci lamentavamo anche, ma di vivere ogni momento, di vivere l’oggi. Ora posso dire che non vorrei tornare a prima ma che tutto quel che ho avuto ed ho è prezioso”.
Ultimo a intervenire è Youlsa Tangarà, uno dei protagonisti del libro ‘ Centoripartenze. Quando la vita ricomincia’ di Paolucci. A differenza di tutti gli altri bambini del suo villaggio in Mali, Youlsa andava a scuola. Suo padre ci teneva moltissimo e quindi a sei anni tutte le mattine Youlsa non andava, come i suoi coetanei, a lavorare. Si faceva i suoi 8 chilometri per raggiungere il villaggio vicino dove c’era la scuola. Quando è cresciuto, si è trafserito in città, per studiare ragioneria.
A mischiare le carte, il colpo di stato militare. Youlsa viene coinvolto e deve fuggire via. Va prima in Costa d’Avorio, poi s’incammina verso la Libia, lungo la rotta dei migranti. Viene salvato dalla guardia costiera italiana. Di centro di accoglienza in centro di accoglienza risale su fino a Bologna. Trova lavoro grazie al suo diploma e alla conoscenza delle lingue. Non dimentica, però, i suoi coetanei che continuano a lavorare nei campi, ad allevare bestiame e a cercare la polvere d’oro nel fiume.
Fonda un’associazione insieme ad altri connazionali, la Yeredemeton. Insieme alla Caritas lanciano una raccolta fondi per costruire una scuola nel suo villaggio. Ci riesce. La scuola è stata inaugurata lo scorso ottobre e accoglie 62 bambini.
“ Quello che ci capita nella vita, accade per noi. Per questo per me è un obbligo morale fare in modo che i ragazzi come me abbiano a disposizione strutture per studiare, restituire quello che i miei genitori mi hanno dato”, racconta. E per un sogno che si avvera, ce n’è uno nuovo che inizia. Adesso Youlsa sta lavorando per costruire una scuola professionale.
Come diceva Cesare Pavese: “ È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”.