Riccardo Muti ha diretto Norma allestita in forma semiscenica all’Alighieri di Ravenna, primo titolo della Trilogia d’Autunno
RAVENNA, 16 dicembre 2023 – Non solo un flatus vocis: una volta tanto si è avuta la netta percezione di cosa significhi «melodia infinita», quella di cui sempre si parla a proposito della musica di Bellini e che, probabilmente, ne rappresenta la definizione più icastica. Si chiariscono, così, pure le ragioni dell’ammirazione provata da Wagner per il compositore italiano, al punto da fare di questo concetto il basamento dei suoi capolavori futuri.
La Trilogia d’Autunno, consueta appendice operistica del Ravenna Festival, ha avuto quest’anno un protagonista d’eccezione in Riccardo Muti, che per inaugurare il breve ciclo ha scelto Norma, un’opera peraltro già diretta in passato (l’ultima volta risale a circa trent’anni fa). In un arco di tempo così lungo molte cose sono ovviamente cambiate e oggi l’esecuzione di Muti punta, soprattutto, sulla potenza drammatica di quest’opera, paragonabile alla tragedia greca. Una presentazione in forma semiscenica, poi, come quella al Teatro Alighieri di Ravenna, ne permette la massima esaltazione.
A suggerire un’idea di spettacolo è sufficiente l’allestimento, solo virtuale, firmato dal giovane visual artist Svccy (al secolo il ravennate Matteo Succi), dal visual programmer cesenate Davide Broccoli, con il disegno luci di Eva Bruno: insieme sono riusciti a evocare sia la sacra foresta nelle Gallie (non manca neppure un riferimento alla quercia d’Irminsul) sia l’epoca classica attraverso ruderi e statue. Collocati sul fondale, anche i coristi – le cui tuniche bianche assumono innumerevoli gradazioni cromatiche grazie alle proiezioni – sembrano un’estensione delle immagini stesse.
Con l’orchestra sul palcoscenico e i cantanti su due piattaforme (una a destra, una a sinistra) la musica diventa protagonista assoluta, e la sensazione che se ne trae è paragonabile all’ascolto di un poema sinfonico-vocale: del resto, a surrogare la cornice scenografica bastano la meravigliosa musica di Bellini e l’eleganza classicista dei versi di Felice Romani. Per questo motivo Muti fa uno straordinario lavoro sui recitativi, cesellandoli – dagli accenti alla dizione – in modo da renderli autentico perno drammatico dell’opera, più ancora delle arie.
Una simile impostazione fa passare in secondo piano il fatto che gli interpreti vocali siano di valore alterno. Se Monica Conesa è sottodimensionata per il ruolo della protagonista, sorprende la personalità con cui Paola Gardina – oltre tutto una sostituzione dell’ultimo momento – imprime ad Adalgisa carattere da vera deuteragonista. Come Pollione, il tenore albanese Klodjan Kaçani ha rivelato più di un problema di emissione, mentre il basso Vittorio De Campo – avvantaggiato da una voce morbida e di colore scuro – risolve il personaggio di Oroveso essenzialmente sul piano timbrico. Puntuali gli interventi dei due comprimari Riccardo Rados e Vittoria Magnarello, impegnati nei piccoli ruoli di Flavio e Clotilde.
Il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, ben preparato da Corrado Casati, garantisce a sua volta solide fondamenta, e ancor più risolutivo appare il contributo dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, che rivela una formidabile duttilità nell’assecondare il Maestro.
Fra tanti momenti memorabili, almeno due vertici: il tempo di mezzo in Casta diva, quasi sempre trascurato, e il repentino stacco – nel terzetto fra Norma, Adalgisa e Pollione – dall’‘agitato’ iniziale alla severità neoclassica di Oh! di qual tu sei vittima. Esempi di quell’ininterrotto flusso melodico che avvolge l’ascoltatore fin dal primo momento, per poi catturarlo definitivamente.
Giulia Vannoni