Narra la leggenda, o meglio la mia carta di identità, che io l’austerity del 1973 l’abbia vissuta per questione di minuti. Poi negli anni l’ho rivissuta dai racconti e dalle immagini che oggi circolano anche sulla rete internet a uso delle nuove generazioni. Quello che ho sentito spesso sottolineare era il dover/ poter andare dappertutto in bicicletta. Al lavoro, allo stadio, in città. Senza tanto lamentarsi (era pure inverno) anzi mettendoci la propria fantasia nel recuperare i risciò dai noleggi estivi o altre soluzioni creative.
Da quelle facce sorridenti ritratte nelle foto in bianco e nero mi è sempre sembrato che quelle persone fossero felici di andare in bicicletta, però se devo dire che negli anni a seguire si sia ragionato di Rimini come città a misura di bicicletta, ho molti dubbi. I chilometri di ciclabili sono tanti ma poi qual è l’effettivo livello di praticabilità? Sia chiaro: intervenire su un tessuto urbano già strutturato non è mai facile e ci si ritrova per forza di cose con ciclabili che si interrompono ogni tre per due.
Ma anche in nuovi quartieri progettati e realizzati non più di venti anni fa si è ragionato in termini ‘macchinacratici’ con passaggi ciclopedonali dove per fare venti metri in linea d’aria bisogna percorrerne cento scendendo pure dalla bici per dare la precedenza.
L’austerity, da questo punto di vista, non ha lasciato tanto il segno.
Forse è arrivata troppo tardi per la vecchia generazione di urbanisti, forse troppo presto per influire su quella nuova. Austerità, t’avessi preso prima.