Il Governo punta sul rafforzamento delle capacità di respingimento, ampliando i Centri per il rimpatrio (Cpr). Ma si ignora la dimensione dell’accoglienza, molto presente a Rimini
Oltre 7.000 migranti a Lampedusa (1.600 arrivati in una sola notte), più degli abitanti dell’intera isola. È il caso più impressionante di una crisi, quella migratoria, che da mesi si sta progressivamente acutizzando in Italia: oltre 130mila i migranti sbarcati da inizio 2023 sulle coste italiane, quasi il doppio del 2022 (circa 70mila) e il triplo rispetto al 2021, quando erano circa 43mila nello stesso periodo di tempo. Flussi migratori che si intensificano (in modo particolare dai territori nord africani) e che non accennano a rallentare. Tanto da spingere il Governo, proprio in queste settimane, a emanare “misure straordinarie” per affrontare il problema. Ed è qui che nasce la questione.
Le nuove norme
Le misure, emanate lo scorso 18 settembre e inserite nel cosiddetto ‘Decreto Sud’, prevedono in modo particolare un inasprimento della gestione dei migranti non richiedenti asilo che arrivano sulle coste italiane, per i quali viene esteso il limite di durata della permanenza nei Centri per il rimpatrio (Cpr), arrivando al massimo di quanto previsto dalla normativa europea: ai 6 mesi iniziali viene data la possibilità di proroghe trimestrali fino a un massimo di 18 mesi, quando sussistano esigenze specifiche, che il Consiglio dei Ministri individua nei casi in cui il migrante “ non collabora al suo allontanamento o per i ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione da parte dei Paesi terzi”. Ma non solo. Con il decreto il Governo mette nero su bianco la volontà di costruire “ ulteriori Cpr da realizzare in zone scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili”. In linea con quanto affermato in passato da esponenti dell’attuale esecutivo, l’intenzione sarebbe quella di raddoppiare il numero dei Centri per il rimpatrio oggi presenti sul territorio nazionale, arrivando a 20, uno per Regione (ad oggi ce ne sono 9). Confermando in modo evidente, dunque, che la linea del Governo è una sola: non affrontare il tema dell’immigrazione dal punto di vista della gestione dell’accoglienza interna, ma massimizzare la capacità di respingimento.
Le criticità
Una strada che sta suscitando non poche perplessità. Due le principali criticità. Da una parte, occorre ricordare che i Cpr sono strutture che per organizzazione e gestione hanno una natura detentiva, in cui le persone sono trattenute in attesa dell’espulsione dal Paese in condizioni tutt’altro che dignitose, nelle quali è concreto il rischio (in passato divenuto realtà) di tensioni, scontri e violenze. E, purtroppo, anche decessi. Raddoppiare queste strutture sul territorio può aumentare il rischio di innescare “bombe sociali”, come sottolineato dagli operatori del comparto sicurezza, che gestiscono materialmente questi centri. “ Nelle strutture già oggi ci sono scontri, tentativi di evasione, problemi di gestione con la conseguenza che spesso poliziotti e migranti mettono a rischio la propria incolumità.
– spiega Pietro Colapietro, segretario generale del sindacato di polizia Silp-Cgil – Figuriamoci se si allungano a 18 mesi i tempi di permanenza. Stiamo creando delle vere e proprie bombe sociali”. Dall’altra parte, c’è un elemento fondamentale: senza un accordo con i Paesi di origine, i migranti per cui è disposta l’espulsione dall’Italia non potranno essere rimpatriati. Questo significa che se passati i 18 mesi di permanenza nei Cpr gli accordi non saranno presi, i migranti trattenuti dovranno essere rimessi in libertà, di fatto non risolvendo la questione, ma con l’aggravante di avere persone che tornano a circolare sul territorio dopo, potenzialmente, un anno e mezzo di mancata integrazione e tensione crescente. “ L’allungamento dei tempi di detenzione amministrativa non servirà né a fermare i flussi dei migranti verso l’Italia, né a rendere più efficace il sistema di rimpatrio forzato”, interviene nel dibattito Roberto Zaccaria, presidente del Cir (Consiglio Italiano per i Rifugiati). E a dirlo sono i numeri: i dati forniti dal Garante per le persone private della libertà (2020-2022) sottolineano che la percentuale media dei rimpatri dai Cpr si attesta attorno al 49%.
Senza un vero lavoro diplomatico con i Paesi di origine dei flussi migratori, dunque, il rischio dell’inefficacia della linea del Governo rimane alta. Tanto che, guardando ai singoli territori, critiche e perplessità arrivano anche da diversi presidenti di Regione, tra i quali c’è anche Stefano Bonaccini per l’Emilia-Romagna.
A Rimini
Con un Governo che al momento sembra ignorare la dimensione interna del problema, quella dell’accoglienza, lo scenario difficilmente potrà risolversi nel breve periodo. Nel frattempo, quindi, la crisi migratoria continua a produrre effetti sui territori locali. Come a Rimini, dove nei giorni seguenti all’emergenza di Lampedusa sono arrivati oltre 30 profughi dall’isola (32), che la Prefettura di Rimini sottolinea essere “ in gran parte donne e bambini piccoli, originari del centro Africa, soprattutto la Guinea” (distribuiti su tutto il territorio provinciale, non solo nel comune capoluogo). Attualmente, a livello complessivo, nel Riminese sono circa 750 i migranti presenti (soprattutto di origine nord e centro africana, e mediorientale), che si aggiungono ai circa 190 profughi ucraini, che sono però in costante diminuzione.
Numeri che incidono su una situazione, quella riminese, già complessa sul fronte accoglienza, con le strutture sempre più al limite e con la Prefettura che, nel mese di agosto, ha pubblicato ben due avvisi pubblici proprio al fine di reperire ulteriori spazi, di cui uno riproposto in questi giorni. Un modello, quello riminese, che storicamente punta sull’accoglienza diffusa sul territorio (come ribadito dalla Caritas diocesana e dallo stesso Vescovo) con tante realtà impegnate sul tema, ma che si trova in difficoltà anche a causa di un sistema nazionale che spinge in un’altra direzione. “ Nei bandi è previsto che le rette siano superiori per i centri collettivi (più grandi) rispetto ai centri abitativi (le piccole realtà). – sottolineava di recente su ilPonte Gianpiero Cofano, segretario generale di Apg23 – La logica? Meno strutture ci sono sul territorio e più è facile monitorarle. Ma così si rischia l’effetto ghetto, piuttosto che favorire l’integrazione”.