Per comprendere quali sono gli effetti dell’inflazione, cioè dell’aumento dei prezzi, basta vedere cosa è successo con il carrello della spesa: lo stesso paniere di beni costa oggi molto più di prima.
Nel primo semestre 2023, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, i prezzi in provincia di Rimini sono aumentati, in media, di poco meno dell’8%. Quelli alimentari, però, del 12%, secondi solo ai prodotti energetici. Le statistiche dicono che sono in discesa, ma restano comunque alti.
Ora, siccome salari e stipendi non sono aumentati come i prezzi, anzi, il più delle volte sono rimasti fermi perché i contratti di lavoro non si rinnovano, il risultato è un netto taglio dei salari reali. Cioè di quello che va sotto il nome di potere d’acquisto.
In concreto: il lavoratore o la lavoratrice prende lo stesso, ma può comprare meno beni e servizi di prima. Questo si traduce, di fatto, in un impoverimento di chi vive del suo salario. Il calo dei consumi, in particolare degli alimentari, lo conferma. Ma anche il minor numero di chi ha potuto concedersi una vacanza.
Secondo un recente Rapporto Coop sui consumi, negli ultimi due anni, il potere d’acquisto degli italiani, è sceso di 6.700 euro pro capite. Non poco. Che fa il paio con il calo degli stipendi del 7% sull’anno precedente (Ocse). Ora, se fosse capitato a tutti, saremmo nel classico e consolatorio mal comune mezzo gaudio. Ma non è così. Perché chi, da molte grande imprese, a partire da quelle in campo energetico, alle maggiori banche e altri, ha potuto aumentare i prezzi più dell’inflazione sta raccogliendo profitti d’oro.
Gli utili delle banche sono raddoppiati in due anni: da 38 miliardi di euro nel 2022 a, prevedibilmente, 60-70 miliardi di euro a fine 2023. La presidente della Banca Centrale Europea, Lagarde, è stata esplicita: “I profitti delle imprese stanno alimentando l’inflazione”. Non è stata la prima a dirlo: già Adam Smith, economista inglese del Settecento, in ‘Ricchezza delle Nazioni’ scriveva: “In realtà alti profitti tendono a far salire i prezzi molto di più degli alti salari”.
Cosa vuol dire questo? Che non solo siamo in presenza di un impoverimento crescente, rispetto a chi gode di posizioni privilegiate, di lavoratori dipendenti e tanti autonomi, per non citare i pensionati, che non usufruiscono delle stesse prerogative, ma contemporaneamente stiamo assistendo ad un trasferimento di ricchezza dalle classi medio-popolari verso quelle più abbienti. Proseguendo una tendenza già emersa da qualche decennio. Un processo che ha un nome preciso: redistribuzione del reddito. Vuol dire che qualcuno dovrà alleggerire il suo carrello della spesa di bene necessari, perché altri, al vertice della piramide della ricchezza, possano comprarsi una villa o una barca di lusso in più. Magari per sentirci dire che se lo sono meritato.
Una conferma ce la da l’ultimo Global Wealth Report 2023 di Credit Suisse, da cui si apprende che la quota di ricchezza detenuta dall’1% più ricco d’Italia, che era scesa dal 22% del totale del 2000 al 17% del 2010 (complice la crisi finanziaria) è tornata a salire sopra il 23% nel 2022. Ma se questa situazione mette in difficoltà tante famiglie, l’impatto sarà maggiore in realtà, come Rimini, dove il salario medio è di 16.000 euro (2021), il 62° nella lista di 103 province, e il più basso in Emilia-Romagna (dove Parma è al vertice con 26.000 euro). Media tirata giù in modo particolare da lavori stagionali e basse retribuzioni.