Torna al ROF per la seconda volta l’allestimento di Mario Martone del dramma serio rossiniano Aureliano in Palmira
PESARO, 12 agosto 2023 – Rivedere Aureliano in Palmira dopo nove anni, con alle spalle ormai l’intero catalogo operistico rossiniano, permette di cogliere quegli aspetti musicali – tanto più che si tratta della prima volta in edizione critica – che inizialmente erano sfuggiti. L’allestimento è lo stesso visto nel 2014 al ROF: regia di Mario Martone, insieme alla sua inossidabile squadra formata da Sergio Tramonti per le scene, Ursula Patzak per i costumi e Pasquale Mari per le luci. Il trasferimento dal Teatro Rossini allo spazio ben più ampio dell’Arena Vitrifrigo ha però comportato qualche inevitabile cambiamento, facendo perdere allo spettacolo parte della sua compattezza visiva.
La scena fissa, del tutto essenziale, delinea una sorta di labirinto che allude a un oriente desertificato. Palmira si trova nell’attuale Siria: se allora le allusioni a un teatro di guerra si caricavano d’emozione, oggi non suscitano lo stesso coinvolgimento emotivo, lasciando posto a riflessioni su nuove tragedie.
In questa cornice di elegante sobrietà gli unici elementi scenici estranei sono tre caprette lasciate libere di muoversi (quando Arsace si rifugia fra i pastori) e la costante presenza della clavicembalista: memento non solo del legame con la civiltà strumentale europea – lo sguardo del ventunenne Rossini è spesso rivolto a Beethoven, soprattutto nell’uso della forma del canone – ma pure invito a prestare attenzione a quella musica che in seguito il compositore utilizzerà per altri capolavori. A cominciare dalla sinfonia e dalla cabaletta di Arsace Non lasciarmi in tal momento, entrambe destinate a confluire nel Barbiere.
Il libretto è del quasi esordiente Felice Romani – in procinto di rivelare tutta la sua grandezza – che ancora guarda agli inevitabili modelli metastasiani (evidente l’assonanza tra la magnanimità del protagonista e quella del Tito mozartiano) ma, nello stesso tempo, è alla ricerca di una strada autonoma. La vicenda, per la verità un po’ iterativa, è quella dell’imperatore Aureliano e della generosità da lui mostrata verso il principe persiano Arsace e la regina Zenobia. L’autentico punto di forza dell’opera è dunque la musica: del resto, Rossini aveva impiegato quasi tre mesi a scriverla – per lui un’enormità – ma quando andò in scena alla Scala nel 1813, paradossalmente, fu un insuccesso a causa dei problemi causati dalle star vocali dell’epoca.
A George Petrou va il merito di aver fatto suonare correttamente l’Orchestra Sinfonica Rossini ottenendo, non senza qualche autocompiacimento, una lettura scorrevole da un’opera che ha la durata di circa tre ore. Il direttore greco ha ben valorizzato quei passaggi che poi confluiranno nei lavori successivi di Rossini, apparendo invece un po’ meno attento a cogliere le novità musicali della partitura e le sue potenzialità di sviluppi futuri. Marchigiano pure il volonteroso Coro del Teatro della Fortuna (preparato da Mirca Rosciani) coinvolto in un compito forse eccessivamente impegnativo e che, quanto meno, difettava di compattezza sonora.
Al centro della vicenda c’è la coppia d’innamorati – molto ben definita sul piano scenico – Zenobia e Arsace, cui spetta un magnifico duetto. Sara Blanch è un soprano leggero, in teoria non ideale per il personaggio della regina, che tuttavia sa utilizzare benissimo la voce nel canto di agilità e disegna così l’indomita e accorata sovrana di Palmira con grande efficacia. Nel ruolo en travesti di Arsace, tanto sfortunato quanto valoroso, il mezzosoprano Raffaella Lupinacci è apparsa inizialmente piuttosto cauta e via via più incisiva, riuscendo a imprimere accenti eroici al suo personaggio, che culminano nel secondo atto con la gran scena della prigione (anch’essa memore di Beethoven). Tra i comprimari da ricordare il baritono Davide Giangregorio, il luogotenente Licinio, esemplare per la scultorea plasticità dei suoi recitavi; il tenore sudafricano Sunnyboy Dladla, solido Oraspe; e il mezzosoprano Marta Pluda, insignita di un’aria di sorbetto nella parte di Publia.
Il protagonista Alexey Tatarintsev merita un discorso a parte. Il giovane tenore russo si è fatto apprezzare per la sicurezza vocale, la curatissima dizione italiana e le capacità interpretative, che gli hanno permesso di delineare in modo convincente le titubanze dell’imperatore Aureliano. Certo, siamo lontani dai canoni tenorili riportati in auge attraverso la Rossini renaissance: qui c’è un bravo cantante, dalla vocalità adatta al repertorio tardo ottocentesco e pucciniano, impegnato in un ruolo baritenorile rossiniano. Segno che i tempi sono ormai maturi per accogliere interpretazioni che prescindono dalla filologia? Forse si tratta solo di un’ulteriore trasformazione nell’incessante divenire del percorso esecutivo rossiniano. Ed è giusto che sia così.
Giulia Vannoni