Responsabilità sociale e civile delle Aziende. Intervista al prof Stefano Zamagni
Rimini si propone come Città della Cultura. Cosa deve cambiare nel territorio?
Professor Zamagni, non pochi economisti sostengono che la Responsabilità Sociale delle aziende sottragga risorse al business e quindi rappresenti un danno per gli azionisti. Ma lei non è d’accordo. Perché?
“Sostiene quella posizione chi mai ha capito qualcosa di economia, oppure mai ha praticato un’attività di impresa. Primo, il successo di un’impresa dipende dal concorso congiunto di cinque classi di stake-holder (protagonisti d’azienda, ndr), solo una delle quali è quella degli azionisti. Ne deriva che il management deve rispondere a tutti e cinque i portatori di interesse e non solo agli azionisti.
Secondo, l’evidenza storica indica a tutto tondo che la Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) accresce il capitale reputazionale dell’impresa (ovvero quell’insieme di valori e comportamenti sociali che influenzano il potere contrattuale dell’azienda) e dunque ne aumenta il potenziale di sviluppo. Terzo, la RSI, se correttamente praticata, migliora l’organizzazione interna dell’azienda, riducendo le aree di conflittualità e accrescendo l’efficienza nell’allocazione delle risorse”.
Da alcuni anni lei ha sostituito l’espressione “Responsabilità Sociale” con “Responsabilità Civile” dell’impresa. Quali, se esistono, le differenze?
“La Responsabilità Civile dell’Impresa (RCI), costituisce l’ultimo anello di una lunga catena, che ha inizio nel 1954 quando l’espressione RSI viene coniata negli Stati Uniti da H. Bowen. Quale la differenza?
Con la RSI si chiede all’impresa di non fare certe cose (non inquinare; non evadere le tasse; non sfruttare i lavoratori; non diffondere informazioni false; ecc.). Con la RCI si chiede all’impresa di fare, cioè di prendersi cura, in proporzione alle proprie forze, di ciò che non va bene nell’ambiente locale di cui è parte. Ad esempio, se il sistema scolastico non funziona come dovrebbe; se i servizi sanitari lasciano a desiderare; se la coesione sociale accusa gravi carenze e così via, l’impresa non può chiamarsi fuori con l’usuale frase: «Non è mio compito; ci pensi l’ente pubblico».
L’imprenditore civile non reagisce così. Si pensi al caso canonico di Olivetti e di tanti altri veri imprenditori”.
Perché la cultura della responsabilità civile da parte delle imprese è più radicata in Emilia che in Romagna?
“La risposta è semplice. Dove sono presenti situazioni di dualismo territoriale, l’area più indietro è quella in cui il senso del civile è meno avanzato. Ciò è confermato da una pluralità di ricerche empiriche, in Italia e all’estero. È un po’ difficile spiegare in poche parole perché avvengano questi fenomeni. La Romagna da oltre due secoli è più indietro rispetto all’Emilia: reddito pro capite; tasso di imprenditorialità; valore aggiunto creato; esposizione all’estero; istituzioni culturali. A quest’ultimo riguardo, si consideri che l’Emilia da secoli ha ospitato quattro università; la Romagna ha conosciuto un insediamento universitario solamente da un decennio a questa parte.
E potrei continuare con altri marcatori di sviluppo. Ma le cose stanno cambiando in fretta, per ragioni legate sia alla nuova geo-economia sia alla prima entrata della quarta rivoluzione industriale. Ecco perché l’auspicio che formulo è che gli imprenditori riminesi, rompendo gli ormeggi (una certa ignavia; stupide gelosie; meschinità varie), osino lanciarsi in mare aperto per accelerare quel progetto trasformazionale della loro realtà locale che è già iniziato. L’occasione del 2026 non può essere sprecata. Lo esige il Bene Comune”.
Giusto. Rimini ha deciso di correre per diventare Capitale italiana della Cultura 2026. Un percorso che il sindaco ha definito ‘sfidante’ e che chiama a raccolta l’intera città in tutte le sue componenti.
Ma la città è pronta a raccogliere questa sfida?
“Rimini deve aspirare a diventare la Capitale italiana della cultura 2026. Se non lo fa, commette un grave peccato di omissione, che avrà grandi ricadute negative sul suo futuro. La città ha tutto il potenziale per raccogliere e vincere una sfida del genere.
Deve però liberarsi da due vizi capitali: il misoneismo (che è l’atteggiamento del disfattista che pensa che nulla possa essere mutato e che preferisce stare al balcone, come
sempre ci ricorda Papa Francesco); e la gelosia, venata di invidia, che mira a tagliare le gambe a chi non si fa avanti per intraprendere una nuova progettualità. Il ‘Piano strategico’ di Rimini ha avuto successo proprio perché allora si riuscì a neutralizzare – con argomenti che non ho qui lo spazio di illustrare questi due vizi”.
Lo storico dell’arte Piergiorgio Pasini, in un recente incontro pubblico, ha sottolineato che i riminesi non hanno mai avuto un grande interesse per il loro patrimonio artistico…
Unica eccezione, nel 1921 quando furono aperti tre libretti di risparmio, intitolati “Giotto pittore”, per poter distaccare e restaurare l’affresco del Giudizio Universale nella chiesa di sant’Agostino.
Incredibilmente dai cittadini riminesi arrivarono molti soldi. Ci insegna qualcosa questa lontana esperienza di ‘Art Bonus’?
“L’esempio del 1921 – che però non è l’unico – ci dice che non è la passione per il patrimonio artistico a fare difetto a Rimini. È piuttosto la sottovalutazione del metodo – che in greco significa ‘la via’ – che occorre porre in atto per conseguire il fine desiderato. Molti ritengono che basti accordarsi sul fine da raggiungere. No, occorre anche concordare sulla via da battere. Ricordiamoci di Kafka: «Esiste un punto di arrivo, ma nessuna via [per arrivarci]». I riminesi tendono ad essere kafkiani (e ne conosciamo le ragioni, la prima delle quali è quella di avere dimenticato la grande lezione di metodo di don Oreste Benzi). I riminesi sono naturaliter generosi, ma la generosità va incanalata perché – mai lo si dimentichi – fare il bene è bene; ma voler fare bene il bene è meglio”.