È vero che i giovani italiani vanno meno all’università dei coetanei europei? Dando una prima occhiata ai dati pubblicati nel marzo scorso da Il Sole 24 Ore, sembrerebbe di sì. L’indagine, basata su una rilevazione di Eurostat, riporta che nel nostro Paese i 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario nel 2021 sono solo il 26,8%, contro il 41,6% della media UE. Bisogna specificare però che le percentuali includono, oltre ai diplomi di laurea, anche i titoli erogati da istituti professionalizzanti, che rappresentano una scelta piuttosto comune tra i neodiplomati in alcuni Paesi europei come la Francia e la Spagna. Tra gli Stati partecipanti all’analisi, prendendo in considerazione i soli laureati triennali, i numeri dell’Italia sono secondi solo alla Germania: nonostante questo dato confortante, c’è ancora molta strada da fare per l’istruzione di terzo livello, che coinvolge ancora troppo pochi giovani.
Giovani, chi sceglie lo studio…
Ma quali sono i motivi per cui gli studenti, concluse le scuole superiori, decidono o meno di specializzarsi? Lo abbiamo chiesto a due giovani riminesi: la prima è Camilla, 23 anni, laureata alla triennale in Lettere classiche e al momento studentessa del primo anno della laurea magistrale in Scienze del libro e del documento.
Camilla, ti aspettavi che i giovani italiani fossero indietro rispetto alla media europea a livello universitario? Cosa pensi a riguardo?
“Sono rimasta abbastanza sorpresa dai risultati dell’analisi: il fatto che una buona maggioranza delle persone che conosco, dopo aver terminato la scuola superiore, abbia deciso di iscriversi all’università, mi ha fatto erroneamente credere che tale scelta fosse più diffusa. La mia percezione può essere influenzata dal fatto che ho frequentato un liceo, dove il conseguimento di un diploma di laurea è considerato un naturale ‘coronamento’ del percorso; tuttavia, apprendere che in questo frangente ci troviamo ben al di sotto della media UE mi lascia dispiaciuta, ma non mi sarei aspettata il contrario”.
Perché hai deciso di proseguire gli studi? E come mai, secondo te, molti dei tuoi coetanei non intraprendono questa strada?
“La ragione principale per cui ho scelto il percorso universitario è la mia passione per lo studio e, in particolare, per le materie umanistiche. Studio perché mi piace, ma anche perché posso permettermelo da un punto di vista economico, che mi rendo conto sia uno dei maggiori deterrenti per chiunque abbia dei dubbi sul proprio futuro dopo la scuola, nonostante le borse di studio e le agevolazioni offerte dagli atenei. Il limite primario dell’istruzione terziaria è però, secondo me, un altro, ossia che al giorno d’oggi rappresenta in tutto e per tutto un prolungamento dei cinque anni di scuola secondaria. Gli atenei italiani possiedono sì una vasta offerta formativa, articolata in corsi ben organizzati con docenti competenti, ma manca del pragmatismo: credo che l’università debba essere in primo luogo un assaggio del mondo lavorativo che ci aspetta, e non una serie di manuali da sapere a menadito abbinati a poche competenze operative ottenute attraverso tirocini e testimonianze di carriera che, per quanto utili, non sono a mio parere sufficienti. A ciò si aggiunge il problema delle aspettative post-laurea: se è vero che gli studenti degli altri Stati UE sono più motivati di quelli italiani a conseguire un titolo terziario è per le prospettive migliori a livello di salario e realizzazione di sé che li attendono al termine degli studi, mentre nel nostro Paese è complicato farsi strada nel mondo del lavoro anche se si è in possesso di diplomi di laurea o dottorato, il che sicuramente induce i giovani a tentare di inserirsi fin da subito nella sfera lavorativa dopo l’istruzione secondaria al posto di ‘perdere tempo’ per ottenere un titolo che non viene riconosciuto con il valore che gli spetta”.
… e chi sceglie il lavoro
Ma in una situazione come questa, dove per i neolaureati trovare un posto di lavoro risulta una sfida sempre più complessa, c’è spazio per chi si ferma al diploma? Ce ne parlaAlessandro, 22enne riminese che dopo l’esame di maturità ha intrapreso fin da subito un percorso lavorativo nell’ambito dell’impiantistica e dell’elettronica nautica.
Alessandro, cosa ti ha spinto a non scegliere l’università, e come te molti altri coetanei?
“La mia decisione è nata innanzitutto dal fatto che già durante gli anni delle superiori ho trovato opportunità lavorative nel settore di cui tuttora mi occupo. Quindi, terminata la scuola dell’obbligo, avevo già delle basi solide da cui proseguire. Ho considerato l’idea di iscrivermi all’università, dato che mi sono diplomato con ottimi voti, ma non ho trovato un corso di laurea che riguardasse i temi che mi appassionano e che, soprattutto, mi fornisse più competenze rispetto a quanto ho appreso attraverso l’esperienza diretta: per questo motivo, dopo essermi preso un anno per chiarire i dubbi che avevo sul mio percorso di studi, ho scelto di continuare a lavorare. Infatti, almeno per quanto riguarda il mio settore, un giovane laureato non spicca particolarmente rispetto agli altri candidati per una posizione, perché l’università fornisce forse troppe conoscenze teoriche che nell’ambiente lavorativo non sono richieste”.
C’è anche il desiderio di raggiungere prima un’indipendenza economica?
“È comprensibile che un giovane appena uscito dalle superiori preferisca iniziare subito a fare esperienza, imparando, oltre che un mestiere, anche a rendersi indipendente da un punto di vista economico molto prima dei suoi coetanei studenti, e valutando più attentamente le proprie prospettive future. Inoltre, inserendosi nel mondo del lavoro ad un’età inferiore si ha un’elasticità da non sottovalutare rispetto a chi si laurea in un ambito circoscritto, che può permettersi a fatica di cambiare completamente strada se capisce troppo tardi di aver scelto quella sbagliata”.
Se questo è lo stato dell’arte, se si percepisce che il valore inestimabile di un titolo di studio terziario sia ormai diventato relativo, non c’è da sorprendersi se tanti giovani italiani decidono di non proseguire gli studi dopo l’istruzione secondaria. È giusto, quindi chiedersi: di quanto calerà la percentuale che avete letto poco fa nelle prossime rilevazioni?
Giulia Cucchetti