Senza fissa dimora. Clochard. Homeless. O, abbandonando il politicamente corretto, semplicemente, barboni.
Uomini e donne di ogni età, colore della pelle e religione. Tutti uniti, però, da un unico destino: la strada.
Dove sopravvivere. Giorno dopo giorno. Settimana dopo settimana. Mese dopo mese. Anno dopo anno. Tra cartoni che li avvolgono come se fossero lenzuola e che dovrebbero proteggerli dal freddo umido e intenso della notte. Magari quegli stessi cartoni che fino a qualche giorno prima custodivano televisori da 50 e più pollici che ora riempiono i nostri salotti.
Li puoi trovare sulle panchine, agli angoli della strada, sotto i portici, davanti le chiese. Sempre, o quasi sempre, con la loro bella bottiglia di alcol con cui scaldare corpo e cuore.
Vestiti di stracci. Con il viso segnato.
Con l’animo di chi sa di essere, per la maggior parte della gente, invisibile.
Se non quando, magari, ti chiedono qualche spicciolo. Allora sì che ci si accorge di loro. E, spesso, li si prende a male parole, li si offende, non sapendo che loro, magari, sono finiti lì, sulla strada, per svariati problemi che li hanno spogliati della vita precedente.
L’identikit del ‘barbone’ riminese
A Rimini, di queste persone, ce ne sono circa 250.
“Di queste, almeno 50 o 60, sono donne. – spiega Livio, 34 anni, operatore della Papa Giovanni XXIII e responsabile della strada per la Capanna di Betlemme – Arrivano da tutte le parti del mondo. Dall’Est Europa, dal Bangladesh, dal Sudamerica, dalla Cina e, ultimamente, dall’Africa. Anche se il 55% circa di quei 250, sono italiani. L’età varia abbastanza, abbiamo notato che in strada ci sono tanti giovani: partiamo dai 18enni che magari hanno abbandonato la propria casa per problemi con la famiglia, per arrivare ai settantenni.
C’è chi si è ritrovato con il permesso di soggiorno scaduto, chi è scappato dalla guerra, chi ha perso tutto a causa del Covid o chi, semplicemente, dopo essersi separato, non riesce ad arrivare a fine mese. Poi ci sono quelli che hanno problemi con l’alcol, con la droga e chi, invece, ha semplicemente un disagio psichico che piano piano lo ha ridotto ai margini della società, come se la colpa fosse la sua”.
E questi sono solo gli stanziali. Ossia quelli conosciuti.
“Poi ci sono gli stagionali. – continua Livio – Sono soprattutto italiani che arrivano in Riviera, magari facendosi anche 600 chilometri, già verso l’inizio di maggio con la speranza di trovare un posto di lavoro. Stanno qui tre, quattro settimane, massimo un mese e mezzo e se non trovano nulla, ripartono per altri lidi. Ma in quei trenta, quaranta giorni vanno a sommarsi a chi è già qui da tempo aumentando l’emergenza e tutto quello che essa comporta”.
Dove si trovano
Molte di queste persone scelgono come ‘casa’ la stazione o i suoi dintorni.
“Diciamo che il grosso si trova lì. Poi, gli altri, sono un po’ sparsi per la città. Ma sempre a gruppetti. Sei o sette dormono in piazzale Santa Rita, proprio vicino alla Casa del Clero.
Altri quattro o cinque nell’angolo dei portici di fronte all’Arco d’Augusto.
Altri nei piazzali di qualche chiesa o sulle panchine e poi ci sono quelli che sostano nei pressi del Mercato Coperto, qualcuno trova riparo all’interno delle colonie dismesse, altri nell’edificio della Questura di via Ugo Bassi”.
Come si interviene
Ma cosa si fa per combattere questa emergenza? “Il Comune ha pensato a un progetto (vedi altro articolo in pagina) che vede coinvolti noi, come Papa Giovanni, la Caritas, il comitato di Rimini della Croce Rossa Italiana e l’Associazione Rumori sinistri. Il lunedì è la Caritas, con l’Unità di Strada, a incontrare queste persone. Portano loro generi di conforto come bevande calde e qualche merendina. Il martedì e il venerdì, invece, è la Croce Rossa ad occuparsene portando loro da mangiare. Il giovedì e la domenica siamo noi ad andare loro incontro.
Abbiamo camomilla, the caldo, e coperte per chi ha freddo. Il mercoledì usciamo sempre noi, ma in questo caso non portiamo nulla se non la nostra presenza. Abbiamo anche un numero d’emergenza disponibile 24 ore su 24, il 342-5684568. Cerchiamo di capire dall’interlocutore se la situazione è grave, se necessita di un pronto intervento o se possiamo, magari, posticiparlo. Senza dimenticare che spesso veniamo contattati dalle forze dell’ordine che magari ci segnalano un caso specifico. Questo avviene soprattutto nel periodo estivo quando, come dicevo, arrivano a Rimini anche gli stagionali”.
Una sera con la Papa Giovanni
Le serate di Livio e dei volontari della Papa Giovanni iniziano sempre dalla Capanna di Betlemme, in via Maiano, a San Martino in Riparotta.
“Ci vediamo lì verso le 19.30, prepariamo tutto quello che ci serve e poi saliamo sul pulmino e ci dirigiamo in stazione, a Rimini. La prima cosa che facciamo quando incontriamo queste persone è capire se le conosciamo già. A quel punto inizi un po’ a parlarci. A chiedergli come va.
È importante far capire ad ognuno di loro che per noi è importante, lui, come persona. Spesso uno sguardo, una parola, o semplicemente l’essere lì in quel momento vale più di tante altre cose. Come è accaduto nel caso di Alì, non sempre quello che semini porta al frutto immediato. Magari occorre attendere del tempo, con pazienza, con tenacia. Poi, all’improvviso, quando meno te l’aspetti, ecco la richiesta che ti arriva e allora capisci l’importanza di essere lì e di stare con loro. Al loro fianco. A farli sentire uomini e donne amati. Dalla stazione ferroviaria, poi, ci spostiamo alla fermata del Metromare e da lì nei dintorni. D’inverno portiamo coperte e qualcosa da bere di caldo mentre d’estate, al contrario, acqua fredda. Quando siamo lì ci chiedono di tutto: dai medicinali alla biancheria. Noi li invitiamo a venire con noi alla Capanna di Betlemme. Per farsi una doccia, per mangiare qualcosa, per fermarsi un attimo in un luogo tranquillo e capire cosa fare della propria vita”.
Perché sono uomini e donne in carne e ossa. E sono lì, davanti a noi, pronti solo ad essere accolti.