Al Teatro Nazionale Sloveno di Maribor un nuovo allestimento di Don Carlo con il soprano Rebeka Lokar e la regia di Marin Blažević
MARIBOR, 2 marzo 2023 – Una gabbia metallica rimodulata di continuo dagli stessi interpreti sembra imprigionare i personaggi, intrappolandoli senza lasciare vie di scampo. Don Carlo, che alle spalle ha l’omonimo dramma di Schiller, è forse l’opera più potente di Verdi, certo quella che mette più a nudo l’indissolubile conflitto tra relazioni politiche e sentimentali, ragion di stato e leggi del cuore: un capolavoro, cui il compositore mise mano più volte, frutto di una travagliata gestazione. Nato per Parigi nel 1867 come grand-opéra, in cinque atti e lingua francese, venne ridimensionato per la Scala diciassette anni dopo, eliminando il primo atto e traducendo i versi in italiano. È questa versione milanese ad essere andata in scena al Teatro Nazionale Sloveno di Maribor.
Il cinquantunenne regista croato Marin Blažević, fra i più talentati della sua generazione, concepisce uno spettacolo d’impostazione minimalista (scene e luci sono di Wolfgang von Zoubek) per distillare pochi e fondamentali snodi: svela così i più reconditi significati drammatici, basandosi – prima ancora che sulle didascalie del libretto – su quanto vuole esprimere la musica. Don Carlo, il fragile infante di Spagna innamorato della donna andata in sposa al padre Filippo II, appare fin dall’inizio rannicchiato in posizione fetale; e lo ritroveremo così al termine del duetto con Elisabetta del primo atto, durante il quale ha un attacco epilettico. Qui il suo spaesamento è enfatizzato dall’azzurra veste della regina, che fluttua su un guardinfante d’imponenti proporzioni: immagine con una forte valenza psicanalitica, che va ben oltre la semplice evocazione di un abito seicentesco (molto belli, nella loro essenzialità, i costumi di Sandra Dekanić).
Sono tanti i dettagli di cui Blažević costella lo spettacolo: ad esempio, la contessa di Aremberg – dama di compagnia di Elisabetta – scacciata dal re, viene mostrata solo di spalle, ma l’umiliazione che subisce diventa ben leggibile nei volti degli altri personaggi. E l’abbarbicamento al potere del Grande Inquisitore è riassunto nel modo più icastico dalla carrozzina su cui il vegliardo domenicano si presenta al colloquio con Filippo II.
Pure la grande scena dell’autodafé viene risolta con pochi mezzi: prima, il coro dei frati è confinato fuori scena, mentre a un gruppo di danzatori con lugubri tonache è affidata una macabra danza (coreografie di Maša Kolar); poi, gli stessi torneranno in scena per mostrare arti umani e porzioni di scheletri appesi all’interno dei loro mantelli. Di grande efficacia anche la morte di Rodrigo: spira tra le braccia di Carlo senza che venga sparato alcun colpo di archibugio, indicando così l’ineluttabilità di un’uccisione che diviene metafora della sconfitta di ogni utopia. E quando, nel finale, il protagonista torna al chiostro di San Giusto si compone il fotogramma conclusivo. Svetta la figura di Carlo con la spada sollevata, che – in un ambiguo epilogo, proprio come lo concepiva Verdi – potrebbe usare contro se stesso o qualcun altro; ed è affiancato da Filippo II, dal Frate (l’anima dell’avo Carlo V) e dall’Inquisitore. Sono tutte silhouette nere, mentre la sola Elisabetta resta personaggio reale: ultima testimone di quello che appare come un atroce incubo.
La regia di Blažević ha poi il merito di esser riuscita a valorizzare le caratteristiche di ciascun interprete: impresa facile con il soprano Rebeka Lokar, che domina con assoluta sicurezza il canto di Elisabetta grazie ai notevoli mezzi vocali, e anche con il tenore Dimitri Paksoglou, che – alle prese con l’irrisolto personaggio di Don Carlo – ha esibito un’emissione sempre salda. Domen Križaj, baritono lirico laddove soprattutto nel confronto con Filippo II sarebbe stata preferibile maggiore drammaticità vocale, ha comunque impresso alla figura di Rodrigo giovanile slancio, tradotto in belle arcate melodiche. A interpretare il re di Spagna era Luciano Batinić, basso nell’insieme corretto, anche se non sempre propenso a scandagliare la parola scenica verdiana. Più debole la principessa Eboli di Irena Petkova che, dopo una Canzone del velo fin troppo cauta, in O don fatale ha messo in evidenza vari limiti timbrici e di estensione. E se Slavko Seculić è apparso del tutto inadeguato al breve e difficilissimo ruolo del Frate, Valentin Pivovarov ha affrontato la figura dell’Inquisitore sottolineando – in accordo con il disegno registico – gli aspetti più biechi del potere. Valentina Čuden è stata un vivace paggio Tebaldo en travesti, per poi trasformarsi in un’armoniosa Voce dal cielo durante l’autodafè.
Purtroppo la bacchetta di Valentin Egel, direttore musicale stabile dell’Opera Nazionale Croata (quella di Maribor è una coproduzione con Fiume), costantemente assestata su un pedale sonoro tra il forte e il mezzoforte, non è stata di grande aiuto ai cantanti. E, soprattutto, non ha saputo restituire la dimensione sinfonica dei meravigliosi passaggi strumentali del capolavoro verdiano. Resta così il rammarico per la poca incisività orchestrale in uno spettacolo, altrimenti, quasi ideale.
Giulia Vannoni