Proposto nella stagione dell’Accademia di Santa Cecilia il raro Elias, oratorio di Mendelssohn tratto dall’Antico Testamento
ROMA, 9 febbraio 2023 – Un contenuto d’intensa spiritualità che si fonde indissolubilmente con l’eleganza della forma. Nell’Elias, grandioso oratorio composto nell’arco di un decennio da Mendelssohn e che vide la luce nel 1846 pochi mesi prima dell’improvvisa scomparsa del musicista, l’autore realizza una simbiosi pressoché perfetta tra concettosità ed estetica. Assai difficile da rendere in sede esecutiva.
Inserita nella programmazione dell’Accademia di Santa Cecilia, Elias infatti costringe gli interpreti a non limitarsi alla valorizzazione della pura bellezza formale, ma a scelte stilistiche dove si fronteggiano un marmoreo retroterra classico e le istanze romantiche presenti nella partitura.
Affidato alla bacchetta di Daniele Gatti, ben corrisposto da un’orchestra come quella di Santa Cecilia (di cui negli anni novanta è stato a lungo direttore), Elias viene restituito nella sua natura di monumentale pagina, dove i grandi blocchi strumentali che guardano a Bach e Palestrina, appaiono ben scolpiti, mentre il lato romantico resta più in sordina. Si può forse rimproverare alla lettura di Gatti una certa mancanza di tensione spirituale, ma è un suo merito innegabile aver saputo esaltare la stupefacente ricchezza tematica di questa musica.
Oltre agli aspetti strumentali, Mendelssohn ha curato con grande attenzione il versante vocale: inevitabile che per un compositore di famiglia ebrea, seppure convertita al luteranesimo, nelle parole dell’Antico Testamento – adattate da Julius Schubring – risuonassero intensi significati religiosi. Nell’Elias manca la figura del narratore, che tradizionalmente negli oratori svolge un compito di raccordo, e Mendelssohn si è dunque preoccupato di delineare i profili psicologici dei personaggi in modo articolato, tale da renderne più immediata la percezione drammatica. Proprio a cominciare dal protagonista, che – con una parte nettamente superiore a quella di tutti gli altri – è l’unico nel quartetto vocale a interpretare un solo personaggio. A sostenerne il ruolo Jordan Shanahan, baritono, laddove era forse più indicato un timbro da basso; tuttavia il cantante ha saputo disegnare un profeta sfaccettato, che si evolve anche psicologicamente trascolorando dall’autorevole e risoluta figura iniziale sino alla trascendenza finale. Accanto a lui svettava il soprano Marlis Petersen, dalla voce penetrante, impreziosita da un’emissione omogenea e sempre salda sia quando anima l’episodio della vedova – fra i più toccanti dell’intero oratorio – sia quando apre la seconda parte con una bellissima aria scritta da Mendelssohn per la grande Jenny Lind. Il tenore Bernard Richter, dopo un avvio un po’ faticoso nell’aria iniziale del discepolo Obadia, ha progressivamente trovato accenti efficaci. Completava il quartetto il mezzosoprano Michèle Losier che, seppure non sempre sufficientemente timbrata nel registro grave, è apparsa assai espressiva.
Un ruolo importantissimo nell’Elias lo riveste naturalmente il coro, cui spetta fra l’altro la grandiosa perorazione conclusiva. Quello di Santa Cecilia (preparato da Piero Monti), numericamente sempre più assottigliato, con i cantanti disposti forse a una distanza eccessiva e poco propizia all’affiatamento, non sempre è riuscito a mantenere sonorità compatte: la sensazione, accentuata dalle monumentali proporzioni dell’Auditorium romano, è che il suono si disperdesse. Un vero peccato perché i cinque elementi del coro (tra cui spiccavano la voce bianca di Bianca Maria Argan e del contralto Margherita Tani), che con i loro interventi hanno integrato il quartetto protagonista, si sono rivelate perfettamente all’altezza del compito.
Giulia Vannoni