di Alberto Rossini
In questi giorni si sono svolte alcune iniziative che invitano a riflettere sulla storia recente di Rimini. Mi riferisco all’incontro con Aldo Bonomi, in occasione dei circa venti anni dalla pubblicazione del suo saggio, Il distretto del piacere (Bollati Boringhieri), che poneva Rimini al centro di quel quadrilatero della modernità formato da Rimini, Bologna, Verona e Venezia e al primo incontro delle Conversazioni riminesi, in cui Giuseppe Chicchi e Massimo Pasquinelli hanno discusso intorno al tema delle origini della modernizzazione.
Metto in relazione queste due iniziative perché entrambe, oltre che a interrogarci sulla questione delle modifiche radicali che hanno portato con sé gli anni ’90, ci invitano a pensare a che cosa è oggi Rimini e quale futuro ha di fronte.
Non c’è dubbio che c’è stata negli anni una grande capacità di crescita e di adattamento, basti pensare alla rivoluzione della nascita del turismo balneare di massa, nato sulle macerie della seconda guerra mondiale, e al superamento della doppia crisi ambientale dell’84 e dell’89 con l’eutrofizzazione e le mucillaggini.
L’ultimo decennio è proseguito, potremmo dire, senza fermarci alle apparenze, in questa direzione di innovazione e cambiamento.
Infatti, si sono realizzati e sono ancora in atto investimenti massicci, per cambiare l’immagine dell’area turistica del mare, il cosiddetto waterfront, ma anche il cuore della città, con la ricostruzione del teatro Galli e tutta l’area dedicata al Fellini Museum.
Eppure, ed è questo il punto, tutto questo non ha generato uno scatto in grado di cambiare segno al destino della città. Non si è innescato un processo di riqualificazione profondo della città, nonostante centinaia di milioni di euro investiti in opere pubbliche e in sottoservizi, basti pensare alla sistemazione della raccolta e smaltimento delle acque bianche.
Del resto una cosa analoga la potremmo dire anche per le precedenti opere pubbliche, quelle degli anni ’80 e ’90, costate centinaia di miliardi di vecchie lire, che non hanno prodotto i cambiamenti sperati, mi riferisco alla realizzazione del palazzetto dello sport, del centro Agroalimentare, del Palacongressi, della stessa nuova Fiera, che comunque meriterebbe un discorso a parte. A tutto questo va aggiunta la realizzazione della cittadella universitaria, altra scommessa vinta a metà.
Accolgo subito l’obiezione che ovviamente non sappiamo cosa sarebbe Rimini senza quelle opere e quegli investimenti, a cui per completezza dobbiamo aggiungere, oggi, Metromare, ovvero il collegamento veloce e su corsia dedicata tra Rimini e Riccione e presto anche in Fiera.
Però non si può non notare che negli ultimi dieci anni, come ci ricorda la ricerca di Sociometrica, la capitale europea del turismo ha perso trecento alberghi che hanno definitivamente chiuso, l’offerta alberghiera è diminuita e quindi per arrivi e presenze non siamo più il numero uno in Italia.
Inoltre, altri centinaia di hotel sono pronti a passare la mano o ad uscire dal mercato. Non sta certamente meglio il commercio, sia quello al dettaglio che quello all’ingrosso. A proposito anche il Gros di Rimini, va inserito in quell’elenco delle importanti opere realizzate, ricordando però che l’investimento in questo caso è stato tutto delle imprese private.
A poche decine di metri dal Parco del Mare si vendono cianfrusaglie a basso prezzo e proliferano i negozi gestiti da extracomunitari. Segno evidente che la qualità della nostra offerta turistica non poi così elevata e che i grandi investimenti non hanno prodotto i cambiamenti sperati.
Certo la Fiera ha prodotto un buon risultato in ottica di destagionalizzazione, ma non abbastanza evidentemente.
La durata dei soggiorni rimane ancora troppo breve, anzi si contrae, con chiari segnali di crisi per le imprese ricettive.
Il turismo estivo rimane segnato da arrivi di prossimità, la quota di turisti stranieri va diminuendo e del resto non potrebbe essere diversamente dopo la crisi dell’aeroporto di Rimini, altra infrastruttura a cui il sistema pubblico ha dedicato molte risorse, senza però grandi successi.
Insomma, appare chiaro che Rimini rimane un po’ nella terra di mezzo. E’ caratterizzata da una sorta di sviluppo mancato, di un qualcosa che avrebbe potuto esserci ma ancora non c’è.
Del resto è questo, almeno in parte, il segno caratteristico dell’Italia, avere grandi potenzialità ma non coglierle e sfruttarle fino in fondo.
Potremmo osservare che troppe volte “la politica” ha cercato di fare da sola, non cercando quelle alleanze, quelle forme di collaborazione, che avrebbero potuto innescare delle trasformazioni più profonde. D’altro lato va osservato che il sistema Rimini accusa la mancanza di una borghesia in grado di essere fino in fondo classe dirigente e quindi è stata, ed è, poco intraprendente, poco propositiva, poco innovativa. A discapito di una tradizione, soprattutto, nel turismo, che invece l’ha vista protagonista in anni ormai troppo lontani.
Non credo però che non ci sia modo di trovare occasioni e strumenti per mettere insieme strategie pubbliche e private e trovare le occasioni di rilancio e riqualificazione. La realizzazione dell’impianto eolico al largo di Rimini potrebbe essere un buon banco di prova.
Penso, inoltre, alle potenzialità, già dimostrate, dal Piano Strategico. Molto può fare, per fare entrare nel vivo del dibattito sul futuro di Rimini, il sistema universitario e la specifica capacità di elaborazione che può mettere in gioco.
Infine, il settore del sociale, in una fase così acuta di crisi e di “solitudini esistenziali”, può, in una collaborazione pubblico privato, offrire nuove modalità di azione e agire comune.
Insomma, De Rita parlava apertamente di eclissi della borghesia, di cui Rimini è un buon esempio, ma non è detto che non ci possa essere qualche occasione per vincere le sfide in atto.