Al Regio di Parma ripresa del Don Giovanni, lo spettacolo di Mario Martone del 2002 che però non mostra segni d’invecchiamento
PARMA, 21 gennaio 2023 – Consapevole che il mito di Don Giovanni sia diventato tale grazie al capolavoro mozartiano, Mario Martone immagina uno spazio scenico che richiama il teatro greco, per sottolineare l’affinità nei confronti di quella tragedia che molti secoli fa ha portato a definire miti immortali, da Edipo a Medea. Concepisce così un grande emiciclo a gradinate lignee su cui siedono prima gli spettatori (il coro, ma solo nel primo atto) e che nel secondo atto si trasforma in cimitero, ospitando la statua del Commendatore: nel finale poi crollerà, facendo sprofondare il protagonista fra le fiamme dell’inferno. L’azione si svolge invece in basso, a livello del palcoscenico, però dilatato – per rafforzare l’idea di un protagonista inafferrabile – in modo da includere la platea e qualche palco di proscenio.
Lo spettacolo andato in scena al Regio di Parma, benché nato a Napoli nel 2002, non mostra segni d’invecchiamento, grazie anche a una visualità senza collocazioni temporali troppo definite (le scene e i costumi di Sergio Tramonti accennano a un sobrio sei-settecento): scelta che, da un lato, ne esalta la componente mitologica e, dall’altro, si tiene lontana dalle attualizzazioni oggi così di moda. La regia di Martone punta a esplicitare soprattutto due polarità drammaturgiche: l’inizio, dove Don Giovanni si mostra in tutta la sua efferatezza (l’aggressione a Donna Anna seguita dall’uccisione del padre), e la conclusione, quando è chiamato al ‘redde rationem’ finale: alla cena si presenterà vestito come un cavaliere di rango, in redingote e parrucca bianche. Il resto scorre a ritmo vorticoso con il frenetico protagonista perennemente in fuga e il servo Leporello costretto – suo malgrado? – a tenergli dietro. Tutti gli episodi intermedi non si avvalgono della stessa ricchezza di dettagli, ma bastano pochi particolari a delineare le varie scene, lasciando così il massimo risalto alla musica e al testo di Da Ponte.
Alla riuscita di questa ripresa parmigiana (a coordinare le prove è stato, in luogo di Martone, il suo assistente Raffaele Di Florio) ha certamente contribuito una buona esecuzione musicale e un’affiatata compagnia di canto. Sul podio dell’Orchestra Toscanini – impeccabile anche quando suona sul palco, durante la scena della festa e in quella conclusiva della cena – era Corrado Rovaris, artefice di una lettura sempre fluida, incentrata però su una visione un po’ asettica, che non suscita troppi interrogativi nell’ascoltatore. Forse avrebbe potuto osare di più in termini di slanci e inquietudini drammatiche.
Protagonista Vito Priante, un ‘burlador’ non animato da particolare vitalismo, ma corretto e dal canto scorrevole; mentre la dialettica con Leporello, concepito più tradizionalmente come servo che come alter ego di Don Giovanni, funziona sul piano scenico e meno su quello canoro, anche a causa della scarsa rotondità vocale di Riccardo Fassi. Mariangela Sicilia, pur senza avere – forse – la piena caratura drammatica di Donna Anna, canta molto bene e sfoggia doti da grande virtuosa nell’aria Non mi dir bell’idol mio, esaltandone tutta la preziosità. Attrice duttile, Carmela Remigio domina il personaggio di Donna Elvira, che ha saputo rendere con ricchezza di sfumature, dando il meglio in una pregevole esecuzione di Mi tradì quell’alma ingrata. Il giovane soprano albanese Enkeleda Kamani ha interpretato un’ottima Zerlina, scenicamente spigliata e precisissima sul piano vocale. La vera sorpresa è arrivata però dal tenore Marco Ciaponi, un Don Ottavio austero ma non sussiegoso, molto apprezzabile nelle sue due arie, soprattutto in Il mio tesoro intanto. Fabio Previati, nei panni di Masetto, ha avuto modo di evidenziare una voce sempre ben timbrata, mentre Giacomo Prestia, autentico basso, ha interpretato un Commendatore più paterno che in grado d’incutere terrore. A tutti i cantanti (pure al coro istruito da Martino Faggiani) spetta il merito di una dizione molto accurata, requisito fondamentale per valorizzare gli splendidi versi di Da Ponte, e al direttore quello di averli saputi ben sostenere.
Giulia Vannoni