Preti youtuber, altri che scrivono di fantasy, altri ancora che usano l’immagine, il teatro o i canali social… Don Alessandro Zavattini, 49 anni, da sempre impegnato nella pastorale giovanile, sulla narrazione educativa, biblica, il bibliodramma ha fatto la sua tesi di laurea ed è in Diocesi uno dei fautori del grande sviluppo di questo nuovo linguaggio, certamente utile alla catechesi, ma anche all’evangelizzazione degli adulti.
Alessandro, uno dei problemi che la Chiesa vive oggi è quello del linguaggio, di come riuscire a farsi ascoltare, ma soprattutto capire. Quanto questo problema tocca il tuo essere prete oggi?
Il problema del linguaggio non è solo quello di farsi ascoltare o capire, ma anche quello di come bene ascoltare e di come capire. Un autentico messaggio, infatti, è un incontro tra due mondi, due culture, il mio e il tuo. Quello che mi ha aperto gli occhi, alla scuola dei Salesiani, è che, come adulti e ancor più come Chiesa, siamo abituati ad informare e non a comunicare. La differenza sta qui: se voglio informare sono preoccupato che quello che ho in testa passi nella testa di chi mi ascolta, come convincere, persuadere l’altro. Gli devo “inoculare” il messaggio come un vaccino. Se invece voglio comunicare so che il messaggio è la sovrapposizione del mio pensiero con quanto tu percepisci di me e di ciò che “dico”. Non solo con le parole, ma con l’atteggiamento, il tono, l’espressione, il corpo… Comunicare è costruire un significato comune con te, dar vita ad un “noi”.
Ma come Chiesa Cattolica Italiana, nemmeno nei 10 anni dedicati al “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” ci siamo soffermati un attimo su cosa volesse dire veramente “comunicare”. Questo atteggiamento comunicativo mi è servito tanto, sin da subito, nella vita non solo pastorale, a voler mettermi in ascolto ed in cammino con le persone prima di parlare o agire. Ed anche ho scoperto sempre più affine allo stile di Gesù, comunicatore perfetto. Venuto non tanto per comunicare “le verità su Dio”, ma Dio stesso e la sua vita. E’ “l’auto-comunicazione di Dio” come fa intendere il Concilio. Il suo metodo (meth-hodos, attraverso il sentiero) è quello sulla strada di Emmaus, icona biblica scelta come sintesi del Sinodo dei Giovani: accostarsi sulla strada della fuga, chiedere e farsi raccontare, rileggere la vita alla luce della Parola, aprire gli occhi con la condivisione… Ed anche il suo stile di maestro con le parabole. Descrive il Regno di Dio parlando di semi con i contadini, di pesca coi pescatori, di talenti coi pubblicani. Mostra l’agire di Dio nel tuo mondo, nella tua cultura e poi te lo fa toccare pescando con te, mangiando alla tua tavola, passando tra i tuoi banchi di mercanzie. Per questo ho deciso, ormai da 20 anni, di tenere un piede dentro la scuola con gli adolescenti, dove passano la maggioranza del loro tempo. Qui trovo anche praticamente tutti quelli che camminano alla lontana non solo dalle nostre celebrazioni ma anche dai nostri incontri. Non tanto e non solo per insegnare, quanto per imparare da loro, che sono l’avanguardia dei cambiamenti, della cultura. Sono la parte più ambita dai modelli di consumo, dalle tendenze di mercato. Son li per ascoltarli non per “vendergli” il Vangelo, quanto per scoprire con loro cosa vuol dire la buona notizia di Dio oggi. E per comunicare che Gesù risorto è il liberatore dei linguaggi e dei talenti.
Tanti episodi me lo hanno fatto capire. Ne cito uno tra i tanti. Tornando dal pellegrinaggio in bicicletta con gli adolescenti da Savignano ad Assisi, in pulmino ascoltavamo la musica di Andrea che sparava un trap strapieno di volgarità, violenza e visioni scurrili delle donne. Gli chiesi se gli piacevano i testi e mi fece ascoltare altri testi più profondi degli stessi autori. Gli proposi di alternarci ad ascoltare una canzone del suo mondo con una del mio background rock anni ‘80. Mi fece ascoltare testi provocanti di rapper ed io gli feci apprezzare le melodie e le riflessioni dei Dire Straits. Ci arricchemmo a vicenda e tra i commenti disse di aver scoperto nuova musica. Diceva don Bosco: “interessati di ciò che piace ai giovani e loro si interesseranno di te”. Sapeva comunicare, come Gesù ad Emmaus.
Come ti sei interrogato? Quali strade innovative hai provato a percorrere?
Tenendo i piedi nel mondo degli adolescenti e del Vangelo, mi sono sorte tante domande proprio sullo stile di evangelizzazione. Anzitutto il mio interesse è sempre stato da una parte la relazione con Colui che mi ha salvato la vita, Gesù, la Sua Parola e il Suo Corpo, vivi. Dall’altra le nuove generazioni che perdiamo sempre più dalle fila delle nostre comunità. Sono entrambe una questione di sopravvivenza: senza il Risorto perdiamo la fonte di vita, senza i giovani ci estinguiamo. Nostro compito è farli incontrare. Questo ci rende fecondi e felici come Chiesa. Oggi i ragazzi (ma anche gli adulti e di conseguenza i bambini) non percepiscono affascinante ciò che per noi è più essenziale e “buono”: la Bibbia, la Messa, la fede, la Chiesa.. Dio stesso. Anzi tanti li descrivono sempre più repellenti. Faccio un gioco nelle classi e coi gruppi parrocchiali. Dispongo nella stanza due poli estremi, credo e non credo. Poi chiedo di disporsi tra i poli in base alla loro percezione attuale, ora. Con i dovuti distinguo, fino a qualche anno fa la maggioranza si poneva al centro con pochi ai due estremi. Più di recente, la maggioranza si pone dal centro verso il non-credo, con più di uno che dice: “se fosse possibile andrei oltre quel polo estremo”. E sono i ragazzi che hanno scelto l’ora di religione e i gruppi cattolici. Hanno immagini negative di chiesa e di Dio. Però ci stanno al confronto, sono favorevoli ad un dialogo autentico con gli adulti su questo. E sono pure interessati alla Bibbia se presentata nel modo giusto. Tra gli universitari ho incontrato diversi giovani che si dicevano agnostici ma leggevano il Vangelo. Addirittura una ragazza che non faceva religione al liceo classico, dopo aver ascoltato Cacciari attualizzare la lettera ai tessalonicesi, ha consegnato la sua tesina d’esame sul “katekon”, termine chiave della teologia neotestamentaria. Allora dove sta il problema?
Indagando sugli stili pastorali della nostra Italia, si comprende bene che l’ignoranza “biblica” di intere generazioni non deriva dalla scarsa informazione. Catechismo e ora di religione la fanno ancora una larga maggioranza. Piuttosto l’ostacolo risiede nell’ignoranza ecclesiale dei linguaggi e degli approcci che sono patrimonio dei “nativi digitali”. Non è questione di informare di più e meglio, di “catechizzare” giovani e adulti. I nostri approcci sono libreschi, intellettuali, criticano l’emotività, si pongono come rieducativi, scolastici, sistematici. Mentre le ultime generazioni Y (o millennials, nati tra l’80 e il’95) e Z (o iGen, nati tra il ‘95 e il 2010), molto più della X Gen (‘65-’80), sono allergici allo stile “educational”, percepito come “manipolatorio” della libertà. Preferiscono i film, i video, le serie tv, i social ai libri, le immagini alle parole, le emozioni ai pensieri, l’interazione più dell’ascolto passivo. Più che con la testa o il cuore, ragionano con la pancia e credono con il corpo (Cfr. i testi di Gilberto Borghi). Amano i videogiochi, le storie, i fantasy, i supereroi, i cosplay (vestirsi come i fumetti). Il Papa dopo il sinodo dei Giovani dice: “Essi ci mostrano la necessità di assumere nuovi stili e nuove strategie. Ad esempio, mentre gli adulti cercano di avere tutto programmato, con riunioni periodiche e orari fissi, oggi la maggior parte dei giovani si sente poco attratta da questi schemi pastorali. La pastorale giovanile ha bisogno di acquisire un’altra flessibilità e invitare i giovani ad avvenimenti che ogni tanto offrano loro un luogo dove non solo ricevano una formazione, ma che permetta loro anche di condividere la vita, festeggiare, cantare, ascoltare testimonianze concrete e sperimentare l’incontro comunitario con il Dio vivente.”
Così li giudichiamo virtuali, superficiali, irrazionali, disimpegnati, giocherelloni. Ma se guardiamo la Bibbia dalla loro parte, coi loro occhi scopriamo che è gran parte racconto, dramma, ironia, piena di visioni, parabole che stimolano la fantasia, guerrieri, eroi e antieroi. Che l’ebraico è una lingua che parla al corpo, tanto che “la Parola si fece carne”. Che Gesù parla col corpo e lo consegna come il vero testamento, è un autentico giocatore di ruolo, racconta parabole come role play, inverte i ruoli (suo il ritornello “i primi saranno gli ultimi…”), scambia la sua identità altri, con i piccoli, i poveri, i disprezzati, in vita e fin con la sua morte in croce. Insomma, studiando i giovani e Gesù, o meglio, la Parola attraverso gli adolescenti, ho scoperto l’importanza del raccontare più che insegnare, dell’homo ludens più dell’homo faber. Il gioco non è qualcosa di infantile, superficiale, poco serio o addirittura pericoloso (come le ludopatie, dipendenze da gioco). Anche la sapienza di Dio nella Bibbia gioca (Pr 8,30). Sono stato fino a Gerusalemme per cercare il significato originale di “parabola”, mashal, per scoprire che significa spesso racconto e gioco.
Servono, allora, approcci di apprendimento narrativo e ludico, modalità che non solo il marketing, ma anche la formazione professionale e scolastica ha da tempo riscoperto. Servono non tanto catechesi o scuole della Parola aggiornate, ma laboratori della fede, aperti in entrata ed in uscita anche ai chi fatica a credere o anche non crede, ma accoglie di mettersi in gioco con la Bibbia. Sono andato, attraverso una ricerca di dottorato, alla ricerca dei metodi che rispondessero a questi criteri. E ne ho trovati diversi molto interessanti. Non mi sono fermato a studiarli, ma, grazie anche a contatti di amici, ho cercato gli ideatori, ho partecipato ai laboratori e poi mi sono dedicato ad apprenderli. In particolare ho conosciuto il compianto Riccardo Tonelli e la narrazione educativa, il collega ed amico Marco Tibaldi e la narrazione biblica, il gesuita Beppe Bertagna e lo psicodramma biblico, Giovanni Brichetti e tutta l’Associazione Italiana Bibliodramma. Investendo su queste dinamiche attive con la Bibbia ho scoperto anche l’importanza di comunicare anche nel kerygma. Bertagna, in particolare, ci ha aperto gli occhi su come la Buona Notizia rischia di essere percepita come cattiva se rimane solo una entusiastica testimonianza: “Hai incontrato Dio e ti ha cambiato? buon per te! ed io, che ho un’altra storia rispetto alla tua? non è per me?”. Se il kerygma non rilegge e non tocca la vita di chi incontro, potrebbe addirittura amareggiare. Ancor di più serve facilitare col gioco l’incontro dei giovani, spesso disillusi e feriti, con Dio, gli increduli con il Padre che crede nei suoi figli, i “fuori dal recinto” con il pastore che esce a cercarli.
Come è stata la risposta dei preti e degli educatori e catechisti a queste nuove forme di annuncio del Vangelo?
Le innovazioni, anche se ispirate, trovano sempre iniziali resistenze, devono passare un “vaglio pasquale”. Quando iniziai la ricerca a Bologna e proposi di accostare le parabole di Gesù ai giochi di ruolo, mi fu detto che ero come un elefante in una cristalleria. Faticai tre anni per mostrarlo attraverso il Vangelo di Matteo e le sue parabole. Mollai per accumulo di impegni pastorali. Poi ripresi a Roma dai salesiani, rifeci un progetto non solo biblico, ma pastorale. Mi fu detto dai primi curatori che era una tesi “tutta sbagliata”, ma poi trovai chi mi seguiva nella ricerca. Quando portai la proposta in Diocesi, incrociai i sorrisi dei superiori che puntualmente si dichiaravano increduli su queste “mode” e fraintendevano metodi pastorali con esegesi. Ma non mi sono scoraggiato, affidando il progetto al Signore, come cerco di fare sempre: “se viene da Te, portalo avanti. Se viene da me, non farmi perdere tempo”. Trovai l’appoggio dell’amico biblista Davide Arcangeli che mi invitò a proporre un atelier per la settimana biblica: 80 iscritti. Poi discussi la tesi di oltre 300 pagine, che prevedeva l’inizio di una formazione per educatori. Due mesi dopo aprimmo un laboratorio con i tre principali autori: Tibaldi, Brichetti, Bertagna. Iniziò una equipe di “Apostoli di Bibbia Narrattiva”. Siamo al sesto anno di formazione collegata ed associata all’Associazione di Bibliodramma, facendo fare esperienza e formazione a circa 200 tra catechisti, educatori, sacerdoti e consacrati. Nel frattempo, grazie a don Davide, abbiamo portato i metodi all’Apostolato Biblico Nazionale con un convegno a maggio 2019, diffondendo l’esperienza in altre diocesi. Ho potuto pubblicare con il Messaggero la piccola guida introduttiva, I giovani e la Bibbia “Narrattiva”. Da qui sono stato contattato da interessanti esperienze soprattutto del Nord Italia. Gli scout del triveneto hanno addirittura dedicato un sacerdote, 40 capi ed un monastero alla formazione permanente ai metodi attivi e “kerygmatici”. Una zona pastorale a Treviso ed ora anche il Sermig di Torino hanno iniziato le prime esperienze con questi approcci per evangelizzare i giovani. E tante Diocesi sono partite con la formazione al Bibliodramma.
Qui a Rimini quanto si è mosso negli ultimi anni? Cosa è nato? Quali strumenti avete avviato?
Da quel primo atelier biblico del 2016, sopratutto grazie all’Associazione Italiana Bibliodramma, ora abbiamo un’equipe consolidata fatta di laici, sacerdoti e religiosi, che ha portato i metodi nella pastorale ordinaria delle proprie comunità, nelle varie zone della diocesi (Coriano, Savignano, Santarcangelo, Flaminia, Centro Storico, Viserba…) ed anche nelle diocesi vicine. Lo stile scout si incontra particolarmente bene con le narrazioni attive tanto che don Raffaele Masi, ormai diplomato al metodo ed assistente Agesci, sta diffondendo l’approccio tra i capi e nella formazione regionale e nazionale, arricchendolo con la danza liturgica. Anche la Casa Vocazionale del Seminario ha riconosciuto che questi laboratori scavano nel cuore degli adolescenti e li stanno adottando sistematicamente nelle convivenze con le scuole, con la collaborazione di diversi “Apostoli Narrattivi”. Anzi il Seminario diocesano è diventato, di fatto e per scelta, la casa di formazione dei nostri laboratori. Non ci siamo fermati nemmeno con il lock down, con esperimenti online. Ne proponiamo una media di due occasioni formative all’anno aperte a tutti, una per la settimana biblica e una durante l’anno, con momenti specifici per i “facilitatori” più navigati. Assieme a don Marco Casadei, neodirettore dell’ISSR Marvelli, abbiamo frequentato per tre anni il corso di psicodramma biblico di Bertagna a Milano. Grazie alle sue formazioni in ambito teatrale (improvvisazione e psicodramma moreniano) l’Istituto si è anche dotato di una proposta di formazione all’improvvisazione teatrale, tra le dinamiche arricchenti dei metodi attivi. E con don Davide, sogniamo da alcuni anni un festival dei metodi biblici attivi a Rimini.
Quante sono le forme diverse che hanno come base il bibliodramma?
In realtà la base metodologica è lo psicodramma di Moreno, a cui si sono formati Bertagna e Brichetti, gli ideatori di psicodramma biblico e bibliodramma italiano. Ci sono altre forme simili in Europa ed in Brasile. Tibaldi ha ideato un suo metodo narrativo attingendo dall’esegesi narrativa e dalla sua formazione teatrale. Ci sono a Venezia e a Pescara forme di annuncio col Teatro Biblico. Tutte hanno in comune la dinamica del Role Play, lo strumento dei giochi di ruolo che nella formazione psicologica, del lavoro, della scuola ha da tempo diffusione. Come Chiesa arriviamo sempre dopo e fatichiamo ad imparare approcci nuovi, sebbene siano ben in stile evangelico ed anzi, proprio nelle parabole di Gesù hanno le loro prime forme terapeutiche, più che didattiche. Infatti sono strumenti “narrattivi” che hanno lo scopo di aprire i sensi, liberare dai pregiudizi, fornire prospettive creative e soprattutto mettersi nei panni dell’altro e ricevere, ludicamente, indicazioni profonde e personali dello Spirito. Per questo chi le pratica è chiamato “facilitatore”: colui che aiuta il gruppo ad aprire la propria umanità (corpo, immaginazione, psiche, emozioni, relazioni, ruoli, ricordi, desideri…) all’incontro con la Parola di Dio.
A chi sono più adatte?
Dalla mia esperienza posso dire, con i dovuti aggiustamenti, a tutti. Certo occorre un “patto” con chi partecipa: lasciarsi mettere in gioco, restare liberi e non giudicare le reazioni altrui. Le generazioni più grandi spesso non sono subito disponibili a queste dinamiche che coinvolgono prima il corpo che la mente. Ma i tentativi fatti anche con la presenza di anziani hanno mostrato benefici anche per loro. Un’anziana signora di Savignano, ad un ritiro con il Bibliodramma, si mostrava critica ed in difficoltà a muoversi perché camminava da mesi col bastone. Il giorno dopo la trovai a messa senza il bastone e mi disse che dopo quel momento non ne ha avuto più bisogno, almeno per diversi giorni. E si era ricreduta su quell’incontro spirituale. Ma ho provato adattamenti per le classi della scuola superiore al liceo e all’iti (Role Play strutturati) anche con chi non fa religione (e spesso stupisce per le intuizioni), con il catechismo (attivazioni più semplici), con i ragazzi delle medie (bibliodramma) che ci hanno stupito, con ragazzi di strada di Torbella Monaca a Roma, negli Esercizi Spirituali Ignaziani, nei campi, nelle convivenze, con universitari, con gli adulti… Certo occorrono degli adattamenti, e molto dipende dallo stile e dallo Spirito del facilitatore, ma una efficacia, rispetto ai metodi frontali, si riesce sempre a sperimentare.
(Il Bibliodramma funziona solo con gli adolescenti o anche con altre categorie di persone?)
Tu sei da sempre impegnato con i giovani. Cosa dovrebbe cambiare nell’approccio della Chiesa con loro?
Direi tre semplici cose: l’ascolto con gli occhi, non l’educazione comunicativa e l’inversione della fede. Anzitutto l’ascolto che si fa con lo sguardo, prima che con le orecchie, come dice Papa Francesco nella Christus Vivit 66-67. “Oggi noi adulti corriamo il rischio di fare una lista di disastri, di difetti della gioventù del nostro tempo. …. Lo sguardo attento di chi è stato chiamato ad essere padre, pastore e guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta (cfr Is 42,3). È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli. Così è lo sguardo di Dio Padre, capace di valorizzare e alimentare i germi di bene seminati nel cuore dei giovani. Il cuore di ogni giovane deve pertanto essere considerato “terra sacra”, portatore di semi di vita divina e davanti al quale dobbiamo “toglierci i sandali” per poterci avvicinare e approfondire il Mistero.”
Poi avvicinarsi non solo con l’atteggiamento educativo ma con quello comunicativo, che vuole imparare da loro. Mi piace l’espressione di Gilberto Borghi, un insegnante di religione a Faenza, che dice nel suo libro: Gli adolescenti mi hanno salvato. Diventare adulti educando i giovanissimi. Lo diceva il vecchio e malato Giovanni Paolo II a Tor Vergata col suo proverbio polacco: se stai coi giovani diventi giovane. E non farsi chiamare “prete giovane”, ma adulto, cosa che nessuno sembra voler fare. E’ il nuovo taboo. O giovane o vecchio: nessuno adulto? Ma l’adulto deve stare a fianco anche quando è messo in crisi da loro, come Robin William in Will Hunting, genio ribelle. Dietro ogni giovane c’è un talento che Dio ha nascosto per salvare il mondo.
Il terzo atteggiamento che mi libera è invertire la fede. Davanti a tanti giovani e genitori che si dicono e si mostrano increduli occorre rivelare il Dio in Gesù si mostra credente negli uomini. I giovani oggi, secondo il censis, sono sfiduciati negli uomini e nel futuro. Non tutti, ne conosco di eccezionali ed impegnatissimi. Ma la maggioranza si. Quando chiedo all’iti cosa desiderano molti mi lasciano il foglio bianco. Ancor più gli adulti, senza sogni e prospettive. Mi piange il cuore quando i miei alunni vengono bocciati perchè i genitori sono assenti per troppo lavoro o lasciano la scuola perchè i padri dicono che sono buoni a niente, che non valgono nulla. Dio ha scelto di salvare l’universo facendosi uomo perchè crede nei suoi figli. E’ questa la vera fede che mi rialza sempre e che trovo nella Bibbia: non sono gli uomini a credere in Dio, ma Dio a credere tenacemente negli uomini. E cosi, come dice la splendida Gaudium et Spes “Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione.”. Un vero adulto, una vera Chiesa madre, non cerca di realizzare i propri sogni attraverso i figli, ma investe perchè Dio riveli il loro originale talento. Come quel padre che davanti al figlio che rifiutò il violino, gli regalò la chitarra che sognava. E sbocciò il genio musicale di Fabrizio De Andrè.