Al Teatro delle Muse di Ancona inaugurata la stagione lirica con Attila, opera tra le più importanti del primo periodo verdiano
ANCONA, 30 settembre 2022 – Quasi sempre nell’Attila vengono messi in evidenza i legami con le opere precedenti, quei drammi d’ispirazione patriottico-religiosa concepiti da un ancor giovane Verdi. Più raro invece guardare avanti, ad esempio al Macbeth che arriverà appena un anno dopo, nel 1847.
Il nuovo allestimento con cui si è inaugurata la stagione lirica di Ancona, a vent’anni dalla riapertura del Teatro delle Muse, indirizza invece lo sguardo al futuro. A cominciare dalla lettura musicale di Marco Guidarini, dove tale attenzione si scorge dapprima sottotraccia, per diventare poi del tutto evidente nel concertato del finale secondo: qui il coro femminile, con l’accompagnamento dell’arpa, sembra davvero evocare il suggestivo Ondine e silfidi del Macbeth. Le sole intenzioni del podio, tuttavia, non sarebbero bastate se fosse mancata una sponda registica in cui rintracciare consonanze d’intenti. Anche lo spettacolo concepito da Mariano Bauduin poneva infatti in primo piano le sollecitazioni teatrali innescate da Attila, materializzandole in una sorta di teatrino al centro del palcoscenico (belle le scene di Lucio Diana e i costumi di Marianna Carbone): allusione alla complessità di un protagonista dai contorni quasi shakespeariani – seppure non ancora esplicitati dal libretto di Solera – e che in seguito caratterizzerà in modo significativo il catalogo verdiano.
Resta solo il rammarico che altrettanta consapevolezza non sia emersa dalla compagnia di canto, formata da interpreti nell’insieme un po’ opachi sul piano vocale e non sempre in grado di mettere a fuoco le caratteristiche dei personaggi. Proprio a cominciare dal protagonista, il basso Alessio Cacciamani, dalla voce risonante anche se priva di rotondità, che ha disegnato un Attila musicalmente corretto, cui però mancava l’idiomaticità dell’accento verdiano. Il soprano Marta Torbidoni aveva un ruolo doppiamente impegnativo: misurarsi con la scrittura di Odabella, tra le più ardue, e – in quanto marchigiana – dover dimostrare, qui più che altrove, il proprio talento. Ha superato la prova, sfoderando apprezzabile grinta e sicurezza nell’affrontare l’ampia estensione dell’aria Allor che i forti corrono, pur trovandosi più a suo agio nella seconda, Oh! Nel fuggente nuvolo, una pagina degna del miglior Verdi per la raffinatezza dell’orchestrazione. Nei panni del generale romano Ezio è apparso poco appagante il canto di Vitaliy Bilyy – baritono ucraino con una ragguardevole carriera internazionale all’attivo – soprattutto per le forzature in alto. Ha invece mostrato lodevoli intenzioni interpretative, nel ruolo di Foresto, il tenore russo Sergey Radchenko, riuscendo a far passare in secondo piano una certa disomogeneità nella linea di canto. Completavano il cast Andrea Schifaudo come Uldino, giovane schiavo del protagonista, e Andrea Tabili, il vecchio Leone.
Se la bacchetta di Guidarini è stata ben corrisposta dagli strumentisti dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini, da cui il direttore ha tratto un suono fluido e sempre compatto, meno efficace è apparsa invece la prova del Coro Lirico Marchigiano V. Bellini (preparato da Riccardo Serenelli) per qualche problema sia di appiombo ritmico e volume – imputabile forse a voci poco fresche – sia di plausibilità scenica. Sicuramente migliore, invece, il contributo del Coro di Voci Bianche Artemusica preparato da Angela De Pace.
La regia di Bauduin è riuscita comunque a mantenersi in sapiente equilibrio tra leggibilità storica della vicenda e visualità contemporanea. Peccato solo per qualche caduta di gusto, come gli immancabili figuranti – in questa occasione quattro giovanotti palestrati – che ormai sembrano un tributo obbligatorio alla moda corrente, cui qualsiasi spettacolo odierno deve adeguarsi.
Giulia Vannoni