Alberto Pellai: “Così i manager della Silicon Valley educano i loro figli”. L’uso dello smartphone e i problemi che crea al cervello di bambini e preadolescenti
I ragazzi e l’uso dello smartphone: solo un semplice strumento? Lunedì 29 agosto, ultima serata della stagione per ‘I lunedì di Viserba’, si è svolto un incontro dal titolo ‘Educare all’affettività per salvare i figli dalla dipendenza del web’. Relatore il dott. Alberto Pellai (nella foto), medico psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso il dipartimento di Scienze biomediche dell’Università degli Studi di Milano, medaglia d’argento al merito in Sanità pubblica conferitagli dal ministero della Salute nel 2004, nonché viso noto tra i relatori della rassegna, alla quale prende parte già da diversi anni. “Per i ragazzi i temi e le osservazioni che condivideremo stasera devono essere quasi un ‘incubo’, – inizia l’esperto – ma in questo recente periodo, complice anche il Covid-19, siamo andati sempre più incontro ad una maggiore virtualizzazione, che in ambito educativo non è un principio benefico”.
Una virtualizzazione, dottor Pellai, con cui ad oggi si viene in contatto sempre più in giovane età.
“Faccio un esempio: se mia figlia, che ha solo 12 anni, venisse lasciata libera di affrontare l’esame della patente, e lo superasse, dovrebbe poter essere libera di guidare? Potremmo porci questo interrogativo come parallelismo con l’uso dello smartphone, che negli ultimi 10-15 anni stiamo affidando a bambini sempre più piccoli concedendogli strumenti sempre più potenti, in un’età, quella preadolescenziale, in cui si ha voglia di piacere, divertimento, gratificazione, il nuovo e l’ignoto sono elementi estremamente ingaggianti, agiscono sul nostro sistema limbico come una calamita. E si fatica a dosare l’intensità del rischio e il senso del limite, motivi per il quale il fenomeno delle ‘ challenge estreme’ è un fatto sempre più di attualità: gesti di alta pericolosità e stupidità, di cui a volte capita di sentire i tragici esiti tra i fatti di cronaca. È proprio in questa età che i nostri figli tramite lo smartphone entrano nel web: un mondo privo di un progetto educativo, all’interno del quale possiamo trovare tutto, che ci propone, tramite un algoritmo, materiale che potrebbe interessarci, apposta per noi, riempiendoci di stimoli estremamente gratificanti al di fuori del progetto educativo. Proprio per questo lo smartphone per definizione non lo considererei come un semplice strumento, che con l’opportuna guida dei genitori possa agire a favore della crescita, ma un vero e proprio ambiente che ti invita a spendere tempo all’interno di ciò che ti propone. La lavatrice è uno strumento, e non ho mai visto nessuno rimanere fisso per ore ad osservare l’oblò”.
Gli smartphone diventano quindi più un modo per intrattenersi?
“Possiamo dire che prima un bambino riceve il telefono prima crea un ambiente in cui controllare noia e frustrazione, contando anche quanto sia accattivante la tecnica d’approccio che fornisce il touch. Qualche tempo fa, mentre mi trovavo a messa, ho avuto modo di osservare tre bambini tra i 2-3 anni, naturalmente tutti molto annoiati. Il primo, dopo insistenti richieste ai genitori, ottenuto finalmente lo smartphone, si era messo a visionare un video senza sonoro di una macchinina che compiva il giro di una pista, per un’intera ora di fila; la seconda bambina, visto il coetaneo in possesso del telefono lo aveva reclamato a sua volta ed ottenuto. Anche lei guardava un video senz’audio di un cartone animato. Solo l’ultimo bambino era senza smartphone e il suo ‘passatempo’ era guardarsi intorno, ingaggiando con lo sguardo altre persone e scambiandosi sorrisi, e creando anche un rapporto più a contatto con i genitori che lo prendevano in braccio affinché stesse più tranquillo. I primi due invece erano più in uno stato dissociativo, di trance, isolati da ciò che avevano intorno. Tra i tre bambini, quello che stava sviluppando più reti neuronali era proprio il terzo, che, avendo bisogno della relazione con i genitori e i vicini per passare il tempo, imparava come gli altri siano una risorsa importante per affrontare la noia e quando da soli non ce la si fa”.
Una società questa di oggi che è cambiata parecchio rispetto a quella delle scorse generazioni. Anche nelle problematiche dei più giovani?
“Se 10-15 anni fa il problema più comune per il quale i genitori chiedevano aiuto era che i loro figli andavano male a scuola ed erano sempre in giro senza dire a far cosa e con chi, ora invece ci si preoccupa perché sono sempre chiusi in casa senza dire cosa stiano facendo e con chi. Una delle occasioni in cui lo smartphone viene regalato per l’uso personale è la prima comunione: in 10-12 anni abbiamo anticipato di 6 anni la consegna del dispositivo. Con conseguenze che impattano sul rendimento scolastico: prima si riceve lo smartphone minore è tendenzialmente la media dei voti nelle scuole secondarie di primo e secondo grado. I 18enni di oggi sanno meno parole, sono confrontabili ai 15-16enni di due decenni indietro. Meno parole significa meno modi per raccontare ed esprimere le proprie emozioni: ed è anche questo a volte a portare ad azioni di autolesionismo. Il rischio è che la profondità di pensiero venga notevolmente deteriorata. Nel frattempo i pediatri lanciano l’allarme miopia: si stanno sempre di più potenziando le reti neuronali da vicino, e per il nostro cervello, che funziona come un muscolo e per il quale le esperienze sono un vero e proprio allenamento alla vita, la miopia simboleggia la mancanza all’esercizio di guardare lontano e si esprime come metafora di malessere. Oltretutto le ore di sonno vanno via via a ridursi: rispetto a 20 anni fa un bambino di prima elementare dorme 60-90 minuti in meno e un ragazzo di 14 anni dai 60 ai 120. Un bambino di 12 anni è stato scoperto dai genitori alzarsi a notte fonda per giocare al proprio videogioco preferito per eludere i limiti di tempo che era tenuto a rispettare. Il meccanismo competitivo innesca la dopamina e rende difficile staccarsi dal dispositivo nonostante le regole stabilite assieme ai genitori, creando una sorta di paese dei balocchi di Pinocchio”.
Quanto ha inciso la pandemia sulle abitudini dei ragazzi?
“Il Covid è stato davvero determinante: ha ridotto la necessità di stare fuori, quando invece la nostra mente è interpersonale, ha bisogno dell’altro, ma ultimamente stiamo fornendo sempre meno strumenti in ambito socio-relazionale, di nuovo anche a causa della pandemia: nelle scuole dell’infanzia, primo luogo in cui si mettono in gioco a pieno le competenze relazionali, e in generale, si è sofferto molto il distanziamento e l’uso della mascherina alla quale si era costretti, e si è andati incontro alla perdita della spinta e dell’attitudine allo stare fuori, come si è notato molto in attività come sport e scout. La propria stanza è diventata come una ‘bolla’ all’interno della quale non ci si espone al rischio di mettersi in gioco con gli altri, al polo opposto dell’aula come pieno esempio di vita relazionale. E il confronto non di persona è molto diverso di quello dal vero: i neuroni mirror, quelli da cui dipende l’esperienza di sentirci sentiti dall’altro, che presiedono l’empatia e regolano le capacità di contatto con le esigenze profonde dell’altro non funzionano davanti ad uno schermo. È per questo che sui social capita spesso di leggere commenti che sembrano scritti come se dall’altra parte non ci sia nessuno, o di essere fraintesi quando ci si scrive tramite messaggi: si tratta di contenuti che esprimono il cosa, ma deprivato dal come”.
Bisognerebbe quindi stare più attenti nel concedere ai figli questi dispositivi.
“Gli stessi manager delle grandi multinazionali della Silicon Valley, grande polo di società specializzate in tecnologia, vietano l’utilizzo dello smartphone ai propri figli fino a 14 anni, non ne consentono l’uso nelle scuole, e quando assumono una babysitter bisogna che ella dichiari che non avrà il telefono nemmeno in mano per tutto il tempo che passerà coi bambini. Chi inventa le tecnologie e le conosce sa bene i rischi che comportano, e ne prevengono l’uso in tenera età affinché il cervello possa ‘modellarsi’ attorno alla forma migliore e che si possa riempire il proprio zaino di competenze per la vita. Meglio farsi male andando in bicicletta che rimanere a casa davanti ad uno schermo: è nel ritmo più lento della vita reale che si acquisiscono gli apprendimenti che davvero valgono per la vita”.
Andrea Pasini