L’Italia ha sete, e non è una novità. Eppure l’Italia, la stessa Italia, periodicamente finisce sott’acqua. Certo, il cambiamento climatico ci ha messo del suo nel creare una situazione che, oggi, è davvero drammatica per buona parte dello Stivale. Ma, accanto alle bizze del clima, negli anni, molto hanno concorso la disattenzione della politica e delle istituzioni, l’indifferenza un po’ di tutti noi. Per questo, oltre a correre ai ripari per affrontare e superare l’emergenza di questi giorni, è necessario riprendere a pensare (e fare) investimenti importanti per raccogliere l’acqua quando c’è e, tra l’altro, gestirla meglio quando occorre.
Dove occorra spendere è subito chiaro. Da un lato in nuovi bacini idrici che possano funzionare da scorte nei periodi sempre più frequenti di gran secco. Dall’altro, in una manutenzione della rete irrigua e soprattutto idrica che, davvero, pare “fare acqua” in modo preoccupante. Secondo l’Istat, la rete di tubi che porta acqua potabile nelle nostre case perde oggi circa il 37% del volume immesso.
A dire le cose chiare è Pierluigi Claps, che insegna costruzioni idrauliche al Politecnico di Milano, che spiega: “I livelli di siccità di questo trimestre nel bacino del Po sono resi preoccupanti dalla quasi totale assenza di precipitazioni invernali. Le poche riserve idriche nivali si sono in parte trasferite nelle falde idriche e questo pare finora sopperire alle esigenze potabili”. Ma soprattutto: “ In situazioni così critiche è doveroso chiedersi se possiamo ancora permetterci di gestire le risorse idriche pensando di essere ‘ricchi’ d’acqua. Gestione attiva delle falde idriche, con ricarica forzata, e riuso di acque reflue in agricoltura dovrebbero essere linee di azione urgenti. E servirebbe maggiore coraggio con gli invasi artificiali: da soli non bastano, come abbiamo visto, ma possono integrare strategicamente le altre misure strutturali. È quello che avviene in contesti regionali ben più avvezzi alle grandi carenze idriche”.
Investimenti, quindi, strutturali, cioè permanenti e non certo di emergenza. Che, tra molti ma con grande autorevolezza, chiede l’Anbi e cioè l’associazione che raccoglie e coordina tutti i consorzi irrigui e di bonifica in Italia. Che precisa subito come il “problema acqua” non sia solo agricolo, ma anche urbano e più in generale ambientale.
Sei regioni (Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania) presentano una percentuale di territorio a rischio desertificazione, compresa fra il 30% e il 50%.
In attesa degli investimenti del Pnrr nel settore e quelle promesse dai protagonisti della filiera dell’acqua, rimane la realtà di questi giorni che Coldiretti, Confagricoltura e Cia-Agricoltori Italiani continuano a descrivere con dovizia di particolari e che si può sintetizzare in un taglio netto della produzione che, a seconda delle aree, può arrivare anche ad oltre il 70%. Con quello che ne può conseguire per tutti noi.