Quest’anno a Saludecio ricorre la grande festa trentennale: 1932, 1962, 1992, 2022… oltre, naturalmente, quella straordinaria in occasione della canonizzazione di Sant’Amato.
Ma perché questa festa? E perché queste feste? Ogni anno, infatti, il giorno 8 maggio, quando si commemora la morte di Amato (per noi cristiani la sua “nascita al cielo”) si fa festa a Saludecio.
Cosa abbiamo da festeggiare?
La festa
Correva l’anno 1330 quando un violento incendio rovinò la casa di Amato, dove allora dal 1292, data della morte, riposava il suo corpo. Per salvare la preziosa reliquia, i saludecesi portarono l’urna in paese, nella chiesa parrocchiale.
Da allora Amato riposa nella chiesa parrocchiale, diventata suo santuario, e solo ogni 30 anni, solennemente, viene riportato all’ospizio, dove era la sua casa. Guardando le foto delle ultime manifestazioni del trentennale, si vedono tante persone che gremiscono la piazza, l’urna collocata su un carro trainato dai buoi, vescovi e preti che camminano col popolo in processione. I più grandi hanno negli occhi e nel cuore la manifestazione del ’62; molti di più quella del ’92…
Qualcuno, magari, fa un confronto e sospira: “Quelli erano tempi…” Lo sappiamo, nella vita tante cose cambiano. Negli ultimi 30 anni il mondo è profondamente cambiato: basti pensare, solo per fare due esempi che ci toccano da vicino, all’informatica da un lato e al crollo delle nascite dall’altro. In ogni caso noi siamo chiamati a vivere in questo tempo e ad amarlo, non a volgerci nostalgicamente indietro.
Tradizione e tradizioni
“E allora le tradizioni?” Una cosa è la “Tradizione”, un’altra sono “le tradizioni”. Queste ultime nascono e muoiono, cambiano col cambiare dei tempi: non avrebbe senso, ad esempio, oggi andare da Saludecio a Rimini a piedi perché quando non c’erano le macchine si faceva così. Insomma, le tradizioni possono anche cadere, ma non deve cadere la “Tradizione”, cioè il tramandare di generazione in generazione il patrimonio di valori, di ideali e anche di fede che hanno plasmato il nostro popolo e la nostra cultura. Ogni genitore che vuol bene al proprio figlio gli trasmette ciò che di più grande e di più sacro ha.
Venendo al trentennale, cosa può insegnarci oggi S. Amato?
Credo che ci insegni proprio la santità, ossia il vivere secondo quello che Dio ha pensato per noi, seguendo il Vangelo: la vita di Amato è stata sempre secondo il Vangelo. Ma la sua santità ha connotazioni particolari che la contraddistinguono e che tanto hanno da insegnare a noi oggi: la preghiera, l’attenzione ai poveri, il cammino, l’umiltà.
La santità di Amato
Amato è stato anzitutto uomo di preghiera, e solo questa vicinanza a Dio gli ha permesso di superare le tante difficoltà incontrate nella vita. Amato è stato un santo pellegrino, che ha compiuto per ben quattro volte il “camino” verso Santiago di Compostela, il grande santuario ai confini del mondo di allora, dopo che l’invasione musulmana non aveva più consentito ai pellegrini del Medioevo di andare in Terra Santa.
Il pellegrinaggio non era per Amato un hobby e neppure una sfida con se stesso, ma una metafora della vita. Amato non era un “vagabondo”, ma appunto un “pellegrino”, con una meta ben chiara. Santiago di Compostela, punto di arrivo provvisorio, e “finis terrae” (ultimo limite del mondo di allora), rimandavano al Paradiso e all’ “initium vitae” (inizio della vita eterna). La terza caratteristica della santità di Amato era la carità verso tutto, specialmente i più poveri. Per questo ha accolto nella sua casa i pellegrini diretti a Roma percorrendo una “Flaminia minor” che passava per Saludecio, i poveri, i malati, donando loro un rifugio sicuro. Amato aveva ben chiaro, insomma, che, come dice S. Agostino, “ al tramonto della vita saremo giudicati sull’amore”.
Infine, Amato era persona umile, cioè consapevole del proprio stato di creatura e per questo vicino all’”humus”, il terreno: “ Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai!”. La sua umiltà aveva trovato una configurazione precisa nell’appartenenza alla grande famiglia francescana come terziario, ossia semplice laico.
Onorare oggi Amato
Amato è stato un grande proprio perché nella sua vita ha scelto di essere un “piccolo”, un “ultimo”, attento al primato di Dio e agli ultimi dei fratelli. Onorare Amato non è quindi gloriarsi della sua presenza nel nostro paese e nella nostra diocesi, ma tentare, con l’umiltà e il sorriso, di calcare le sue orme nella vicinanza a Dio, nella fattiva attenzione ai poveri, nella carità e nella misericordia verso tutti, consapevoli della fragilità di tutti, quindi anche della propria.
I segni esteriori della festa possono cambiare o addirittura cadere: ciò che importa è che resti l’amore a Dio nell’amore a tutti. Da ultimo: il trentennale ricorda che il corpo di Amato è stato posto nella chiesa parrocchiale, in mezzo alla sua gente, alla comunità cristiana.
Festeggiare Amato è quindi riconoscere che proprio la Chiesa, famiglia di Dio, è il “luogo” della nostra santificazione e deve essere l’oggetto del nostro amore. Diceva don Lorenzo Milani: “ La Chiesa è la madre, e se uno ha la madre brutta, che gliene importa?” Oltre sette secoli prima Amato l’aveva capito bene e per questo è rimasto sempre figlio fedelissimo della madre Chiesa. Santo Amato, amico di Dio perché amico dei poveri e amico dei poveri perché amico di Dio, prega per noi!
don Tarcisio Giungi