Al Teatro dell’Opera di Roma un nuovo allestimento dell’ultimo capolavoro di Bellini, proposto senza le tradizionali sforbiciature
ROMA, 24 aprile 2022 – Per i melomani più oltranzisti I Puritani non solo rappresentano il miglior banco di prova per giudicare un cantante, ma diventano arena di scontri feroci, dove gli interpreti di oggi vengono messi a confronto con leggendarie, quanto idealizzate, voci del passato. Però, attenzione: spesso si tratta di meri fantasmi, di cui esistono soltanto cronache scritte e nessuna testimonianza registrata; senza dimenticare, poi, che un tempo si cantava con un diapason ben diverso dall’attuale.
Un’esecuzione come quella in scena adesso al Teatro dell’Opera di Roma è, dunque, l’ideale per sollecitare un certo tipo di sadismo legato all’agone canoro: tanto più che si tratta di Puritani integrali, cioè senza i tagli che da sempre hanno funestato il capolavoro di Bellini. La godibilità dell’opera certo ci guadagna (non è vero che una maggior durata sia sinonimo di noia, spesso vale il contrario), ma le sforbiciature consolidatesi negli anni spesso erano fatte nell’intento di agevolare il compito del tenore, sottoposto a una prova ai limiti delle possibilità di laringi umane. Quasi inevitabile, dunque, che tutta l’attenzione si concentri sul versante vocale. Eppure in quest’opera del 1835 si profilano anche altri motivi d’interesse. Nonostante le debolezze del libretto, Bellini azzarda infatti forme del tutto innovative – sul piano orchestrale, sul ruolo del coro e degli equilibri fra i pezzi d’insieme – che chissà dove lo avrebbero condotto se non fosse morto appena otto mesi dopo.
Roberto Abbado, dal podio, ha affrontato con grande consapevolezza la partitura, restituendo alla musica quel senso di “melodia infinita” che fa di Bellini un ponte tra classicismo e romanticismo, nonché una piattaforma per i futuri traguardi wagneriani. Con l’impeccabile rigore che lo contraddistingue, e sempre ben assecondato dall’orchestra, il direttore ha lavorato di cesello soprattutto sulla dinamica strumentale, in modo da non coprire mai le voci: una lettura che sottolinea i collegamenti strutturali con il Rossini serio, senza trascurare però il clima gotico in cui quest’opera è immersa. Ha inoltre saputo illuminare passaggi spesso poco valorizzati, esaltandone la potente teatralità, come nel caso della ‘stretta’ finale del primo atto resa in modo esemplare.
La bacchetta poteva poi contare su una coppia di protagonisti davvero all’altezza della situazione. Jessica Pratt è apparsa del tutto a suo agio con la difficilissima scrittura di Elvira. Dopo un esordio un po’ guardingo, ha disegnato con vocalità sempre cristallina un personaggio adolescenziale, di un’ossimorica tenera drammaticità mentre si abbandona alla follia; né si è mai lasciata andare a quelle ostentazioni d’ipertrofico virtuosismo che snaturano le caratteristiche del personaggio. Funziona molto bene anche la dialettica che instaura con John Osborn, alle prese con il ruolo monstre di Arturo. È vero che il tenore non interviene nel secondo atto, ma nel terzo – tanto più in un’edizione integrale – deve affrontare un impegno estenuante al cui termine, appena prima della chiusura, Bellini prescrive un Fa sopracuto. Osborn non solo canta con struggente intensità A una fonte afflitto e solo, che duplica il poetico lamento del soprano, ma sfodera un’ampia gamma di sfumature espressive, frutto di una tecnica solidissima (scuola vocale americana, accompagnata da un modo di porgere la frase del tutto italiano). Arrivato al termine della sua estenuante fatica, raggiunge poi il FA senza problemi.
Non bisogna comunque pensare che il compito degli altri interpreti sia più facile. Il baritono Franco Vassallo ha preferito orientare il suo Riccardo verso i lidi verdiani, più congeniali alle sue caratteristiche vocali, imprimendo al personaggio caratteristiche sanguigne e meno rarefatte. Assai difficile anche il compito del basso Nicola Ulivieri, alle prese con il personaggio di Giorgio, musicalmente proteiforme, che passa dal canto legato del duetto con Evira a quello ritmico e scandito di Suoni la tromba, e intrepido. Molto brava il mezzosoprano Irene Savignano nel trasformare in un ruolo di primo piano la breve apparizione della regina spodestata Enrichetta.
Firmava lo spettacolo Andrea De Rosa, con le scene di Nicolas Bovey e i costumi di Mariano Tufano, che cerca di configurare una cornice senza tempo. Il regista compie il maggior scavo psicologico sul personaggio di Elvira e sul suo scivolamento verso la follia: in un impeto autolesionistico la protagonista si ferisce, le viene messa una benda sugli occhi, e il suo disagio si trasforma in cecità. Resta impressa l’immagine di lei infagottata nell’abito da sposa: una sorta di mummia, prigioniera di un sogno che non è riuscito ad avverarsi.
Giulia Vannoni