Organizzata dal Coro Galli l’opera di Capodanno. La regia di Paolo Panizza, pur tradizionale, si avvale delle più moderne tecnologie
RIMINI, 1 gennaio 2022 – Quando si mette in scena un Don Pasquale bisogna essere consapevoli dei vantaggi e dei rischi che si corrono: da un lato si va incontro a un successo assicurato, perché con la sua irresistibile comicità l’opera di Donizetti riesce a far presa immediata sul pubblico; dall’altro è necessario stare attenti a non sminuire il valore di questo capolavoro, declassandolo al rango di farsa fuori tempo massimo.
Con Rossini il genere comico aveva raggiunto vertici ineguagliabili. Anche se nessun compositore avrebbe osato rivaleggiare con il suo indiscusso maestro, l’opera buffa non è sparita definitivamente dai palcoscenici dell’ottocento e restano almeno due capolavori: appunto, Don Pasquale e, molto più tardi, quel Falstaff con cui Verdi prenderà commiato dal pubblico. Si tratta però di una comicità di segno ben diverso da quella rossiniana: per Donizetti i protagonisti non sono più caratteri monodimensionali, ma personaggi dalla psicologia sfaccettata e complessa, grazie a un efficacissimo libretto – cui mise mano anche lo stesso compositore – e, soprattutto, in virtù di una musica che ha ormai imboccato la strada del romanticismo. E bisogna tenerne conto quando si allestisce uno spettacolo.
Il Coro Amintore Galli ha raccolto l’impegnativa sfida, scegliendo per la tradizionale produzione operistica di Capodanno proprio Don Pasquale, e ne ha affidato la cura registica a Paolo Panizza. Il suo allestimento fa ricorso – alla maniera della migliore scuola italiana – alle quinte dipinte, o almeno così si potrebbe pensare: in realtà la dimora del protagonista è disegnata attraverso proiezioni. Sfruttando le tante possibilità oggi offerte dalla tecnologia, il fondale si trasforma più volte nei diversi ambienti che fanno da cornice all’azione, compreso il giardino dell’incontro notturno tra Norina ed Ernesto. La modalità virtuale consente effetti sorprendenti e spiritosi come l’arrivo di un grande piccione, o il passaggio di un cavallo (il disegno proiezioni porta la firma di Enrico Pazzagli e Roberto Ajovalasit), ma nello stesso tempo Panizza non rinuncia al suo ruolo di regista attraverso interventi – a cominciare dalla famigliola di servi nerovestiti – che potenziano il libretto senza stravolgerlo.
La parte musicale era affidata invece all’Orchestra da Camera di Rimini, una formazione nata nel 2016, al suo debutto operistico: a guidarla Stefano Pecci, che ne è direttore principale. La sua lettura è apparsa preoccupata soprattutto di condurre in porto buca e palcoscenico senza inconvenienti, meno attenta invece a valorizzare gli aspetti di formidabile sperimentatore che contraddistinguono la musica di Donizetti.
Disomogeneo il quartetto vocale, ma non privo di elementi d’interesse. Il protagonista Giuseppe Esposito ha evidenziato una serie di problemi – recitativi poco intelligibili, timbro opaco, centri e gravi mal saldati tra loro – che una certa simpatia scenica non basta a compensare. È venuta meno, così, la comicità vocale del personaggio, surrogata da una recitazione un po’ macchiettistica ben lontana dalle intenzioni donizettiane. Accanto a lui il baritono Daniele Caputo ha interpretato un convincente Malatesta, grazie a un’emissione sonora e un fraseggio sempre sorvegliato. Ed è apparsa del tutto a suo agio nel personaggio di Norina il soprano Giulia Della Peruta: fluida nel cantabile, sciolta nella coloratura, dotata di giusta verve da commediante. Il giovane Christian Collia ha eseguito per intero la grande aria del secondo atto (un tempo i tenorini di grazia come lui la limitavano alla sola prima parte): uno sforzo forse eccessivo per le sue possibilità dato che, quando Ernesto abbandona la fisionomia del tenore ‘di mezzo carattere’, Donizetti – del resto, siamo nel 1843 – lo catapulta, a tutti gli effetti, nei panni del grande tenore romantico.
Nei suoi interventi, il Coro Galli – preparato da Matteo Salvemini – paga lo scotto di voci poco fresche: a loro però va il grande merito di aver realizzato un’opera in condizioni mai così difficili come quelle attuali. E che il pubblico – comunque assai numeroso, pur senza raggiungere il “tutto esaurito” degli anni prepandemia – ha dimostrato di apprezzare.
Giulia Vannoni