Come sarà la Chiesa del futuro?
Non occorre essere indovini per comprendere che è questa la domanda che soggiace a tutta la ricerca avviata con il Sinodo dei vescovi ed il “percorso sinodale”, scelto dalla Cei.
La Chiesa che verrà deve anzitutto prendere atto di quello che c’è e poi se possibile costruire qualcosa di diverso. Il vero credente soffre oggi per una Chiesa ingabbiata in gravi problematiche e fatta bersaglio di numerose accuse, molte giustificate.
L’assottigliamento della comunità cristiana, accelerato dalla situazione pandemica, è sotto gli occhi di tutti. Meno gente alle liturgie, meno gente che s’impegna, meno disponibilità nel mantenere strutture e iniziative pur molto importanti per aver creato profondi legami col territorio.
Diventa ormai difficile anche confermare attività fondanti l’intero tessuto sociale (dunque non solo ecclesiale), perché le strutture sembrano sovradimensionate per i pochi rimasti ad animarle. E questo con un impoverimento di tutto il corpo sociale.
Una Chiesa dunque che si ritrova piccola o comunque in minoranza. Qualcuno ha anticipato questa situazione, ma col rischio di creare una Chiesa che coincide col piccolo gruppo, caloroso e consolante, ma chiuso, al riparo di un mondo cattivo.
Visione che nasce dalla paura della diversità e del confronto, col rischio di una Chiesa che diventi grembo che protegge, come accade a Giona, rifugiatosi nel ventre del grande pesce, che decide alla fine di non andare a predicare a Ninive, e preferisce stare nella pancia del pesce. Ed è esattamente il contrario di quanto ci invita a fare Papa Francesco, quando ci spinge alle periferie, ai confini dell’umanità, perché lì va fatto conoscere il Cristo e la sua parola liberante.
Ma come fare per portare il Vangelo della morte e resurrezione di Gesù, un annuncio impegnativo e complesso, in una società che ormai dialoga per faccine e messaggini, che non indaga più oltre il proprio account social?
E poi oggi le differenze all’interno della comunità sono più vistose che in passato e questo provoca sofferenza e tensione e lo si avverte ancor più in una chiesa minoritaria.
Già, ma perché non pensare che sono anche il frutto di una Chiesa più aperta verso il mondo, anzi lei proprio parte del mondo?
Una strada che ci potrebbe portare magari a meno uniformità e a più accoglienza verso la diversità. In fondo, si sottolinea spesso anche oggi, la parrocchia è chiamata ad essere “la casa di tutti”. Una comunità che non dovrà avere paura delle proprie differenze.
C’è molta carne al fuoco. Il Sinodo ha il merito di aver riacceso il fuoco. Davvero, oggi non è il giorno giusto per dire: perché discutere, tanto non cambia niente.