Con Julius Caesar, novità di Giorgio Battistelli tratta da Shakespeare, si è inaugurata la stagione del Teatro dell’Opera di Roma
ROMA, 28 novembre 2021 – L’italiano non è più la lingua dell’opera. La forma d’arte che, per antonomasia, veicolava la diffusione del nostro idioma, oggi si avvale dell’inglese per parlare a tutti: al pari della scienza o dell’economia. E questo nonostante il compositore Giorgio Battistelli sia italianissimo di nascita e formazione.
Con il suo Julius Caesar ha appena debuttato al Teatro dell’Opera di Roma, inaugurando l’ultima stagione firmata dal sovrintendente Carlo Fuortes. Questa ‘tragedia in musica’ si avvale di un libretto che il drammaturgo inglese Ian Burton ha tratto da Shakespeare, limitandosi non solo a varie sforbiciature e a utilizzare un linguaggio che ovviamente non è più quello del Bardo, ma apportando anche significative modifiche.
Una vistosa differenza riguarda il fantasma di Cesare: per Shakespeare era poco più di una fugace apparizione, mentre qui diventa una presenza incombente, prima coadiuvando nel suicidio Bruto e Cassio, poi mostrandosi alle spalle di Ottavio, quasi a sottolineare l’ideale continuità del potere. E, con una strategia drammaturgica che per certi aspetti rievoca la trasformazione subita da Jago nell’Otello verdiano, nel nuovo libretto Bruto assume un ruolo autenticamente deuteragonistico: un personaggio dall’etica rigorosa, incapace di mediazioni, preoccupato della concentrazione dei poteri che Cesare va accumulando nelle sue mani, preludio di una deriva autoritaria troppo rischiosa per Roma.
La Storia c’insegna che l’assassinio di Cesare ha assunto una forte valenza simbolica, divenendo quasi il paradigma di tutte le dittature. E se la drammaturgia di Burton mette in primo piano questi aspetti, la musica di Battistelli ne sottolinea la tragicità dei significati, puntando sulla pregnanza della parola, attraverso una gamma di registri che alterna lo Sprechgesang alla recitazione intonata, mentre in orchestra predominano le tinte scure, fosche, scandite da un massiccio uso delle percussioni, e non solo nel caso delle ventitré pugnalate inferte al protagonista.
Sul fronte scenico, il regista Robert Carsen ha costruito con la stessa consapevolezza uno spettacolo ambientato nel nostro tempo, che potrebbe valere per qualunque latitudine e, soprattutto, essere facilmente esportato. Mancano infatti legami espliciti con Roma e l’Italia, se si eccettua il tricolore che avvolge il cadavere di Cesare quando viene mostrato al popolo: i senatori sono vestiti come moderni agenti di borsa (i costumi sono di Luis F. Carvalho), con le loro cartelle portadocumenti, né la scenografia algida e asettica di Radu Boruzescu, che ricostruisce l’aula ad anfiteatro del Senato, possiede una precisa connotazione geografica (e meno che mai italiana, almeno per l’idea che ci siamo fatti di Palazzo Madama attraverso le cronache parlamentari).
Tranne il bravo baritono caratterista Alessio Verna, tutti anglosassoni i tredici interpreti vocali. Protagonista il basso Clive Bayley, che disegna una figura autorevole, ma anche icastica nella sua dimensione privata e casalinga. Molto incisivo nei panni di Bruto il baritono Elliot Madore, che grazie a una voce robusta ma flessibile plasma un personaggio sfaccettato, combattuto fra l’affetto per Cesare – ne era figlio adottivo, destinato probabilmente a succedergli – e quello che reputa, invece, il superiore interesse di Roma. Minor rilievo drammatico e musicale sembra avere qui la figura di Antonio (cui spetta invece, con la sua orazione funebre sulla tomba di Cesare, il momento più celebre della tragedia di Shakespeare), forse per una certa opacità del baritono Dominic Sedgwick, così come genericamente corretto, ma non davvero a fuoco, appare il Cassio del tenore Julian Hubbard. Meritano ancora una citazione l’ambiguo Decio del basso Scott Wilde, il mercuriale e penetrante Casca di Michael J. Scott (un tenore caratterista che sembra un perfetto Mime), il servo Lucio incarnato da Hugo Hymas – ancora un tenore comprimario ma non troppo – con il suo canto onirico dai suggestivi echi britteniani. E, tra tanti uomini, unica figura femminile è quella di Calpurnia, moglie di Cesare: ruolo ben assolto dal mezzosoprano Ruxandra Donose.
Per il suo commiato dall’orchestra del Teatro dell’Opera, che ha diretto per tre anni, Daniele Gatti si è speso molto, dimostrando di credere in questa novità: la sua è una lettura analitica, sensibile anche ai dettagli più minuti, eppure in grado di conferire continuità e scorrevolezza alla partitura. E di mantenere sempre molto alta la tensione drammatica.
Giulia Vannoni