Pensavamo forse che non ci riguardassero più di tanto i ripetuti allarmi degli scienziati sui cambiamenti climatici: non siamo lapponi che vivono ai bordi dei ghiacciai e nemmeno popolazioni raminghe nel deserto sahariano sempre più infuocato. Pensavamo che la nostra geografia ci permettesse sonni abbastanza tranquilli.
Ma che direbbe oggi un catanese, dopo l’uragano di qualche giorno fa o un sardo dopo gli incendi estivi e tutti coloro che, dall’Italia al Canada, hanno visto il termometro salire fino ai 40-50° nel caldo record dell’estate 2021?
Ecco allora che, all’improvviso non le previsioni degli scienziati ma le cronache dei tg – anche di casa – ci dicono e mostrano che il problema non è domani, il problema è già qui, oggi. Pare un problema piccolo se ci limitiamo a fissare lo sguardo sul numero che lo rappresenta, quel +1,5 gradi, che indica la soglia ottimale entro la quale contenere il surriscaldamento del pianeta individuata dagli accordi di Parigi del 2015. Un obiettivo-soglia che non si è mai trasformato in rigoroso impegno: per questo, secondo gli esperti, quella soglia è oggi di fatto già utopica. Siamo già oltre, tanto che si cerca di contenere l’innalzamento sotto i 2°.
Ora è pur vero che l’Unione europea si sta impegnando come mai prima su un New deal green e che grande è lo sforzo degli Usa di Biden in tal senso, ma è altrettanto vero che questo non basterà. Manca ancora il 40% dei paesi, compresi Russia e Cina.
Perché le nazioni siano così restie ad impegnarsi nella riduzione di emissioni di gas serra lo ha spiegato molto bene il neo premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi nel suo intervento alla Camera dei Deputati:
“Il Pil dei singoli paesi sta alla base delle decisioni politiche e la missione dei governi sembra essere quella di aumentarlo il più possibile. Questo obiettivo è però in profondo contrasto con l’arresto del riscaldamento climatico”. La crescita economica ha infatti grande bisogno di energia e l’energia più usata è ancora quella che viene dal carbone e altri combustibili fossili.
La questione è estremamente complessa: non è facile convertire alle rinnovabili senza intaccare l’equilibrio e le economie esistenti: vale per i grandi consumatori di energia (i paesi più industrializzati) come per i produttori di petrolio (Medioriente) o di carbone (Australia), che fondano la loro ricchezza solo sul mercato di quelle risorse. Lo sforzo è enorme e va necessariamente condiviso: per questo sul piatto della Cop26 ci sono da una parte gli impegni di transizione ecologica e dall’altra gli impegni umanitari per sostenere le aree deboli del pianeta.
Quel grado e mezzo chiede davvero uno sforzo tanto gigante quanto urgente: 1,5° sembra poca cosa ma così non è. Ciascuno può sperimentarlo su di sé: passare da 36,5° a 38° fa la differenza, ad esempio ci costringe a casa. Se poi, come per il pianeta, si tratta di un aumento di 2° allora tutto si aggrava: significa che il pianeta ha la febbre a 38.5°.
E – purtroppo per noi e per i nostri posteri– non c’è tachipirina per Madre Terra.
Simonetta Venturin