L’Orfeo diretto da Ottavio Dantone è andato in scena al Teatro Alighieri di Ravenna in un nuovo allestimento di Pier Luigi Pizzi
RAVENNA, 6 novembre 2021 – Una parete che potrebbe appartenere a una dimora nobiliare oppure a un cimitero monumentale – e, perché no?, essere anche la facciata di un teatro – rappresenta il fondale dell’intera scena. Gli interpreti discendono lungo gli scalini del portone centrale, l’orchestra è sul palco, mentre la buca viene utilizzata per raffigurare gli inferi, e un praticabile – verso la platea – consente ai cantanti di aumentare lo spazio a disposizione.
L’Orfeo – il capolavoro di Monteverdi che, nel 1607, rappresenta il primo esempio di melodramma – ha debuttato al Teatro Alighieri di Ravenna in un nuovo allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi, autore come sempre di regia, scene e costumi (con lui ha collaborato Massimo Gasparon, responsabile anche del disegno luci). L’impatto visivo dello spettacolo ideato da questo signore – che però, a novantun anni portati splendidamente, verrebbe voglia di definire ragazzo – fa leva come sempre sulla perfetta eleganza formale. Esalta così i contrasti cromatici tra il mondo dei vivi, individuati da vestiti di foggia moderna senza tempo, di un bianco abbagliante, e quello dei morti: sagome velate di nero o in grigie vesti. Salvo poi, qualche volta, divertirsi a scompaginare le carte.
Protagonista di questa ‘favola in musica’ è l’Accademia Bizantina: ventitré ottimi strumentisti – soprattutto archi e fiati – guidati da Ottavio Dantone, anche maestro concertatore al cembalo. A prescindere dalle idee che ciascuno può avere in materia di filologia (un terreno che diventa tanto più insidioso quando è chiamato in causa il protobarocco), bisogna riconoscere che hanno suonato molto bene: e questo è l’importante.
L’Orfeo segna una svolta rivoluzionaria nella storia del teatro e inaugura un nuovo genere, quello operistico: sta lì a ricordarcelo proprio la Musica, il personaggio cui è affidato l’intero prologo. Il libretto di Alessandro Striggio, fin dai primissimi versi che configurano quasi una dichiarazione d’intenti poetici, ricorda lo straordinario potere di quest’arte e come Orfeo sappia esercitarla su tutto il creato. Nei cinque atti in cui si dipana la mitologica vicenda, il divino cantore ha poi modo, a sua volta, di sottolineare l’importanza della musica, mentre si adopera a far uscire dagli inferi l’amatissima Euridice, e poi perderla, quando si volge indietro nel timore che lei non lo segua.
Nello spettacolo ravennate, la sorpresa arriva al momento della conclusione, perché direttore e regista, insieme, hanno concordato di non optare per alcuno dei due finali canonici: quello tragico, in cui Orfeo viene ucciso dalle Baccanti (forse utilizzato in occasione della prima a Palazzo Ducale di Mantova), e quello lieto, con l’intervento di Apollo, che discende dal cielo per salvarlo (probabilmente adottato nella seconda esecuzione di una settimana dopo). Il quinto atto s’interrompe così con la sinfonia che avrebbe dovuto precedere la discesa del deus ex machina – una soluzione cui oggi, del resto, è molto difficile dar credito – e lascia il finale aperto, come già Luciano Berio auspicava fin dai primi anni ottanta.
Cast tendenzialmente giovane, a cominciare dal protagonista Giovanni Sala, sicuro ed espressivo, grazie anche a una dizione sempre nitida. Dal punto di vista stilistico, si è comunque avuta la sensazione che ogni interprete avesse fatto scelte autonome, senza una linea comune cui rapportarsi, ma confidando solo sui propri mezzi. Inevitabilmente questo ha penalizzato i più giovani, avvantaggiando invece chi era provvisto di maggior esperienza. Non hanno avuto certo difficoltà ad affrontare la scrittura di Monteverdi né un rossiniano come il basso Mirco Palazzi, interprete di Caronte, né la coppia che governa gli inferi: Proserpina (magnifico il suo abito) e Plutone, ossia il mezzosoprano Daniela Pini e il basso Federico Sacchi, grazie alla sua solidità vocale. Più spaesati gli altri, soprattutto le donne, anche se alcune cantano bene, come Alice Grasso, una Messaggera che ha poco in comune con il canto barocco, mentre sono apparsi assai più consapevoli nel valorizzare la parola i tre pastori Massimo Altieri, Luca Cervoni ed Enrico Torre.
Agli interpreti faceva corona il Coro Cremona Antiqua, in sostanza veri e propri solisti, diretti da Antonio Greco. Si è poi aggiunto il contributo di otto danzatori, con il loro incessante movimento – coreografato da Gino Potente – volto soprattutto a dare un ulteriore tocco di vivacità e dinamismo alla messinscena. Nonostante i suoi quattrocento e passa anni di storia, quest’opera però non ne ha bisogno.
Giulia Vannoni