Al Verdi Festival di Parma Un ballo in maschera ideato dal grande regista Graham Vick poco prima della sua scomparsa
PARMA, 1 ottobre 2021 – Non sapremo mai come sarebbe stato Un ballo in maschera secondo Graham Vick, il regista portato via dal covid neanche tre mesi fa. Jacopo Spirei, a lungo suo assistente, ne ha raccolto l’eredità, curandone la messinscena per il Verdi Festival di Parma: uno spettacolo piacevole da guardare, ma senza quelle folgoranti intuizioni sulle dinamiche fra i personaggi e i collegamenti con l’attualità cui ci aveva abituato il grande regista inglese.
Nello spazio semicircolare concepito da Richard Hudson, molto ben valorizzato dalle luci di Giuseppe Di Iorio, troneggia un sepolcro sormontato da un angelo, che resterà l’unico elemento scenico per i tre atti. Il compito di sottolineare le differenze di ambiente spetta ai numerosi mimi e performer (c’è persino un acrobata che volteggia appeso a un trapezio durante il tragico ballo finale): un’umanità fluid gender che attraverso i cambiamenti di abiti – sempre firmati da Hudson – contrappunta le diverse situazioni drammatiche. Nell’edizione vista a Parma, però, il triangolo amoroso che fa da motore alla vicenda ha assunto caratteristiche diverse da quelle abituali.
È stato infatti ripristinato il libretto concepito inizialmente, intitolato Gustavo III, che prendeva il nome del re svedese assassinato quasi un secolo prima. Tuttavia, in quegli anni (1859) era proibito mettere in scena un regicidio: il poeta Antonio Somma fu dunque costretto a cambiare l’identità dei personaggi, modificandolo nel Ballo in maschera che tutti conosciamo.
Se le danze, più adatte alla corte di un monarca settecentesco, perdono parte della loro pregnanza nel nuovo contesto, paradossalmente bisogna ringraziare la censura, perché le forzate trasformazioni dei personaggi rendono in realtà l’intreccio ancor più intrigante. Riccardo, il protagonista, è un inglese chiamato a fare il governatore di Boston; mentre il fido amico e segretario Renato è un creolo: portatore, dunque, di una “diversità” funzionale alla sua metamorfosi in implacabile vendicatore. Per non parlare, poi, della figura di Ulrica, divenuta una veggente nera e, dunque, personaggio perfettamente plausibile in territorio americano. Caratteristiche dei personaggi a parte, c’è però un altro aspetto che lascia perplessi in questo recupero del libretto primitivo: la manipolazione delle parole di arie celeberrime, e ormai sedimentate nel nostro immaginario, come Eri tu che macchiavi quell’anima e La rivedrò nell’estasi non aggiunge nulla al caleidoscopico melodramma verdiano. Anzi, gli sottrae forse qualcosa.
La parte musicale era affidata alla bacchetta di Roberto Abbado, che ha guidato con precisione ed eleganza una duttile Filarmonica Toscanini (integrata dalla Orchestra Rapsody fuori scena), dal suono sempre nitido e compatto. Anche il cast presentava motivi d’interesse, con almeno due punti di forza: il baritono Amartuvshin Enkhbat, morbido fraseggiatore, dotato di un’ottima capacità nel sostenere il suono; e il soprano Maria Teresa Leva, un’Amelia dove il dominio della linea di canto si fa, esso stesso, veicolo interpretativo. Meno a suo agio il tenore protagonista, Piero Pretti, arrivato con qualche affanno all’ultimo atto. Il mezzosoprano Anna Maria Chiuri ha saputo gestire in modo convincente pure gli affondi contraltili più gravi; e si è mossa con disinvoltura vocale e scenica, nei panni en travesti del paggio Oscar, il giovane soprano Giuliana Gianfaldoni. Nei ruoli di contorno si è fatto apprezzare soprattutto il baritono Fabio Previati, il marinaio Cristiano (nel libretto del Ballo, Silvano), mentre la coppia dei congiurati era interpretata da Fabrizio Beggi e dal più incisivo Carlo Cigni. Completava il cast Cristiano Olivieri nel piccolo ruolo del ministro di giustizia. Ottima la prova del Coro del Teatro del Regio, preparato come sempre da Martino Faggiani.
In ogni caso, assistere in condizioni finalmente normali – con l’orchestra in buca e gli interpreti non più ossessionati dalla necessità del distanziamento – a un’opera fra le più appaganti e amate dal pubblico restituiva comunque il piacere incommensurabile del teatro. Facendo dimenticare ogni eventuale contraddizione.
Giulia Vannoni