Terzo titolo nel cartellone del ROF l’opera in due atti Elisabetta regina d’Inghilterra in un allestimento supertecnologico
PESARO, 8 agosto 2021 – Quando l’orchestra esordisce con la sinfonia del Barbiere, lo straniamento lascia disorientati: la sensazione è quella di aver sbagliato opera. Del resto Rossini aveva fatto dell’autoimprestito una prassi consolidata, ma con Elisabetta regina d’Inghilterra – primo lavoro scritto per Napoli nel 1815 dal ventitreenne compositore – chi ha familiarità con l’arco dell’intera produzione rossiniana non può fare a meno di pensare a un centone. In realtà Elisabetta, cui Rossini lavorò per un periodo insolitamente lungo per lui, si è trasformata essa stessa in serbatoio da cui il compositore ha attinto per tanta musica futura, proprio a cominciare da quella sinfonia iniziale che – nata per Aureliano in Palmira – verrà trasferita definitivamente nel Barbiere meno di cinque mesi dopo. E altrettanto clamorosa è la cabaletta della cavatina della protagonista (proveniente anche questa dall’Aureliano) che, pur con qualche modifica, diventerà la celeberrima Ma se mi toccano cantata da Rosina. Per un direttore, tuttavia, può diventare insidioso imprimere un diverso valore semantico a qualcosa che è fin troppo sedimentato nella memoria degli ascoltatori. Evelino Pidò ha saputo trarre dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai sonorità fluide e scorrevoli, grazie a un’apprezzabile varietà dinamica, mentre sul piano stilistico non sempre affioravano quelle sfumature drammatiche più acconce alla vicenda ideata da Giovanni Schmidt e, comunque, a un’opera seria benché a lieto fine.
L’idea dello straniamento torna pure nello spettacolo di Davide Livermore, ambientato in un periodo di poco successivo alla seconda guerra mondiale, con la protagonista ricalcata su Elisabetta II – le mancava solo la borsettina a tinte pastello – e con un Norfolc che ricorda vagamente Churchill. Presenza fra le più assidue del ROF, Livermore si è ispirato alla pluripremiata serie televisiva The Crown, avvalendosi della collaborazione di Gianluca Falaschi per i bellissimi e spiritosi costumi; dello studio architettonico milanese Giò Forma, responsabile dei suggestivi cambiamenti di scena e dei mobili sghembi alla maniera di Ronconi; oltre a Nicolas Bovey per le luci e alla società D-Wok per il video design. Certo, l’uso delle tecnologia è molto sapiente, ma dopo un po’ si ha la sensazione di uno spettacolo che gira a vuoto, avvitandosi su se stesso in un vorticoso susseguirsi d’immagini sempre più manierate, che fanno perdere di vista le dinamiche drammaturgiche.
Anche sul versante vocale i contrasti fra i personaggi appaiono disinnescati e sembrano stemperarsi in una piattezza omologatrice, che in teatro rappresenta uno dei più grandi pericoli. Il mezzosoprano Karine Deshayes non riesce a delineare la regalità di una protagonista combattuta tra l’amore per Leicester e i doveri di una sovrana: poco a suo agio in un ruolo di soprano Colbran (la futura moglie di Rossini fu anche la prima interprete di Elisabetta) per una zona acuta un po’ troppo tirata, non ha sfoderato colorature proprio adamantine, sebbene sia andata migliorando nel corso della serata. Sergey Romanovsky resta un pregevole tenore, ma come Leicester ha avuto qualche cedimento che non gli ha permesso di dare il meglio nella sua grande aria del secondo atto Della cieca fortuna. Del tutto deludente il tenore inglese Barry Banks, al suo debutto pesarese, per i troppi limiti di una voce instabile e senile: il subdolo Norfolc (il primo interprete fu Manuel García) perde così ogni sfaccettatura drammatica e, anziché un malvagio intrigante, finisce con l’apparire una sorta di macchietta che non ha niente in comune con il libretto. Presenza abituale del ROF, il soprano Salome Jicia ha avuto esiti discontinui in un personaggio – quello di Matilde, la rivale della protagonista – di maggior afflato lirico, che avrebbe richiesto una vocalità più morbida. Da citare, ancora, il mezzosoprano Marta Pluda, dalla voce diafana nei panni en travesti di Enrico, e il tenore Valentino Buzza, oltre al contributo del Coro del Teatro Ventidio Basso ben preparato da Giovanni Farina.
È vero che siamo ancora lontani dalla potenza drammatica delle regine Tudor donizettiane, ma Elisabetta rappresenta un’opera che ha goduto di una certa longevità in palcoscenico: dunque, qualche fremito drammatico in più era legittimo aspettarselo.
Giulia Vannoni