A Pesaro la versione francese del Mosè in Egitto, prima opera in cartellone del quarantaduesimo Rossini Opera Festival
PESARO, 6 agosto 2021 – Il confronto forse lo vince Mosè in Egitto: il suo rifacimento del 1827 per il palcoscenico parigino non riesce a raggiungere la stessa icasticità drammatica dell’originale. Del resto, le due opere erano destinate a pubblici molto diversi: nove anni dopo, quando Rossini compone Moïse et Pharaon, non solo il libretto adotta il francese, ma l’opera assume proporzioni ben più imponenti con l’aggiunta di un atto e brani di nuova composizione (in particolare i balletti, pressoché obbligatori sulla ribalta dell’Opéra).
A prevalere è dunque la grandiosità sinfonico-strumentale, con una musica che raggiunge vertici di straordinaria bellezza: le sole danze durante il terzo atto, appunto, potrebbero figurare benissimo tra le pagine di una serata concertistica. E allora ci si aspetta che l’orchestra e, ovviamente, il direttore diventino il punto di forza dell’esecuzione. A Pesaro non si poteva contare su una bacchetta carismatica, ma forse era legittimo aspettarsi qualcosa in più, data l’indiscussa professionalità dell’Orchestra Sinfonica della Rai e del Coro del Teatro Ventidio Basso. Invece Giacomo Sagripanti si è limitato a condurre in porto l’esecuzione senza intoppi né in buca né in palcoscenico, ma i tanti piccoli dettagli, e quelle suggestive sfumature che rendono unica questa partitura, sono scivolati via senza imprimersi nella memoria e, soprattutto, non suscitando particolari emozioni. Passano quasi inosservati persino la splendida preghiera Des cieux où tu résides (Dal tuo stellato soglio, nella versione italiana) e i bellissimi concertati.
A fronte di questa lettura piuttosto monocorde, neanche lo spettacolo di Pier Luigi Pizzi – con lui ha collaborato Massimo Gasparon – è stato in grado di azionare leve emotive. Fedele a se stesso, l’anziano regista ha concepito ancora una volta un allestimento di grande eleganza e geometrico rigore, statico nell’insieme come fosse un oratorio: memore, forse, che l’originale veniva definito ‘azione tragico-sacra’. Pure le danze, coreografate da Gheorghe Iancu, rispondevano a rigorosi criteri architettonici. L’ausilio di proiezioni ha poi consentito di visualizzare le manifestazioni divine, ossia le “piaghe” inflitte agli egiziani che si rifiutavano di far partire gli ebrei. Come sempre bellissimi i costumi nella loro essenziale eleganza e molto apprezzabile nel finale, dopo la traversata del Mar Rosso, il colpo d’occhio sulle silhouette degli ebrei che suggeriscono, evocandole appena, tragedie recenti.
Se la bacchetta non ha creato particolari problemi al palcoscenico lo si deve anche alla bravura dei cantanti: soprattutto alla componente femminile. Eleonora Buratto, al suo debutto al ROF, si è rivelata interprete adattissima al Rossini francese: affronta con naturalezza la ragguardevole estensione di Anaï, s’impone per la pienezza della voce e un’emissione d’impeccabile omogeneità a tutte le altezze. La sorpresa maggiore è venuta però dal mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya che affronta l’impervia scrittura di Sinaïde (quasi da soprano Falcon) con sicurezza e capacità di dominare anche i passaggi più difficili nelle sua grande aria del secondo atto, riuscendo a disegnare un personaggio dalle molte sfaccettature, autenticamente complesso e tormentato. La terza interprete, una veterana come Monica Bacelli, è stata un’incisiva Marie.
Sul versante maschile, il basso Roberto Tagliavini ha impresso a Moïse ieratica autorevolezza scandita da una voce sempre ben proiettata, mentre l’altro basso, Erwin Schrott, si è contraddistinto per una certa tendenza a strafare: ne emerge un Faraone un po’ fatuo e sopra le righe. Più problematica la situazione dei tenori. Andrew Owens possiede le note acute di Aménophis (ruolo che alla prima parigina fu interpretato da Adolphe Nourrit), ma la voce non ha sufficiente corpo e volume nell’intera tessitura. Molto meglio Alexey Tatarintsev, nei panni di Éliézer per omogeneità d’emissione e timbro. Osiride un po’ sottotono il basso Nicolò Donini, soprattutto per l’insufficiente volume.
Lo spettacolo si chiude con un bambino (il piccolo Horus), già comparso anche in precedenza: nostalgia di un’infanzia dell’opera, in questo caso Mosè in Egitto? Oppure, meglio pensarlo come buon auspicio per il futuro: formulato da un veterano del palcoscenico come Pizzi, e dopo un periodo così difficile.
Giulia Vannoni