Castel Sismondo: un biglietto dalla Russia (con amore)
Quasi cent’anni fa, nel marzo del 1922, il filologo e pensatore russo VladimiroZabughin, così amato e studiato dal nostro Augusto Campana, chiedeva al Governo italiano di trasformare il «Castello Malatestiano di Rimini […] in degna magione dell’arte italica del Rinascimento e degno ricettacolo di dantesche memorie». L’idea, tanto ovvia, sembra oggi un pensiero straordinario e inattuale: ridare a Castel Sismondo la sua dignità e il suo respiro monumentale.
Il nuovo millennio si era aperto con il restauro dell’edificio, portato a termine grazie all’intervento dovizioso della Fondazione Cassa di Risparmio e con la mostra dedicata all’età di Sigismondo. Aveva suscitato qualche bella speranza il più recente sgombero dall’area di Piazza Malatesta dal parcheggio e dal mercato ambulante, presto tramontata con la realizzazione di sgradevoli e poco filologici ingombri in marmo rosa e il taglio, inutile, di platani centenari.
A proposito di spazio, si guardino le medaglie di Matteo de’ Pasti che riproducono l’idea di Castel Sismondo, così il dettaglio dell’affresco di Piero della Francesca nel Tempio, infine, il bassorilievo di Agostino di Duccio col segno zodiacale del Cancro.
Il Castello che, riprendendo il filo di antichi studi trascurati, Giovanni Rimondini riconduce correttamente al pensiero di Filippo Brunelleschi (trovando consensi illustri in Tomaso Montanari e Vittorio Emiliani), è nato per essere enfatizzato in una gloriosa solitudine, non solo militare ma anche simbolica. Un isolamento garantito un tempo dal fossato e poi lasciato al buon senso (storico ed estetico) dei cittadini riminesi.
E anche se non fosse di Brunelleschi, la storia pretenderebbe che si rispetti la delicatezza del terreno archeologico che lo attornia, dell’architettura del fossato che vi è sepolta, evitando di stendervi sopra un oceano di cemento; l’estetica imporrebbe, invece, che non se ne impatti la visione con elementi di disturbo che ne snaturino il destino di cui persino il pietroburghese Zabughin era consapevole.
Chi scrive venera Federico Fellini e ha sempre trovato incredibile che Rimini non ne sapesse valorizzare la figura di vero e proprio filosofo e poeta dell’immagine. Ma non vi è niente di più scorretto e inappropriato (e di pessimo gusto) che parodiarne l’immaginario perturbante che in lui implicava un sentimento tragico, melanconico e profondissimo della vita e che si può restituire solo in una sala cinematografica, proiettando la sua opera.
Fellini che, dentro e fuori dei suoi film, portava avanti battaglie disperate e inutili contro lo svilimento dell’arte a prodotto mercantile d’intrattenimento e di consumo, s’indignerebbe dell’impatto che certe “invenzioni” a lui dedicate (a partire dal mostruoso scavo per lo specchio d’acqua, stigmatizzato anche da Italia Nostra) potrebbero avere sul Castello e riderebbe, tra sé e sé, della totale incomprensione della sua poetica.
Alessandro Giovanardi