Si dice sanità, si pensa al Covid.
È questo, purtroppo, l’automatismo che oggi scatta in ognuno di noi appena si sente parlare di temi legati alla medicina e all’assistenza sanitaria. Inevitabile, comprensibile, ma sbagliato.
L’arrivo della pandemia, infatti, non ha messo in pausa tutti gli altri problemi di salute che affliggono le persone e, di conseguenza, i servizi di assistenza a questi legati.
Uno dei tanti temi sempre presenti, ma rimasti un po’ ai margini del dibattito pubblico, è quello dell’abuso e della dipendenza da alcol. Argomento molto delicato in Italia: come riportato dal consueto Rapporto dell’Osservatorio Nazionale Alcol, nel nostro Paese ogni giorno in media 48 persone muoiono a causa dell’alcol, oltre 17mila ogni anno (dati relativi al 2018, gli ultimi disponibili nel Rapporto 2020). Numeri importanti anche in Emilia-Romagna.
“L’analisi dei comportamenti a rischio evidenzia – si legge nello studio – valori superiori alla media nazionale dei consumatori abituali eccedentari e fuori pasto e, per il solo genere femminile, delle consumatrici a rischio. Si registra, rispetto al 2017, un aumento del valore di prevalenza dei consumatori fuori pasto per entrambi i generi, del 4,3% per i maschi e del 16,9% per le femmine”. E per quanto riguarda Rimini? Qual è la situazione e quali sono i servizi attivi per seguire le persone che soffrono di dipendenza e patologie legate all’abuso di alcol?
Risponde la dottoressa Maria Caterina Staccioli, responsabile del Centro Dipendenze Alcol – Fumo di Rimini, afferente all’Unità Operativa Complessa Dipendenze Patologiche.
Dottoressa Staccioli, qualche mese fa è stato pubblicato il consueto Rapporto dell’Osservatorio Nazionale Alcol. Qual è la situazione a Rimini?
“Purtroppo a un livello di provincia non ci sono dati precisi, soprattutto per quanto riguarda i decessi causati dall’abuso di sostanze alcoliche. Possiamo, però, fare una panoramica sulla situazione generale degli accessi ai nostri servizi, in un anno particolare come quello che stiamo vivendo. La pandemia, infatti, ci ha fatto assistere a una contrazione degli accessi al Centro Dipendenze Alcol – Fumo di Rimini, a causa dei tempi rallentati per effettuare i tamponi e per il fatto che, in caso di positività, i pazienti non potevano recarsi nella nostra struttura. Meno persone, dunque, si sono potute rivolgere al nostro servizio”.
Con quali conseguenze?
“La più delicata è l’aumento dei casi di aggressività in famiglia. L’abuso di alcol, infatti, ha tra i suoi effetti quello di portare a una serie di alterazioni a livello relazionale, nel rapporto con le persone e con gli affetti più cari. I lunghi periodi di isolamento, purtroppo, non hanno aiutato in questo senso”.
E dal punto di vista delle patologie causate dall’abuso di alcol? Quali sono le più diffuse?
“A Rimini assistiamo a un aumento degli accessi al Pronto Soccorso per intossicazione e agitazione psicomotoria. Ma il problema dell’alcol è molto complesso, perché sono tante le patologie associabili al suo abuso. Guardando alle più diffuse, l’organo maggiormente colpito è ovviamente il fegato, molto delicato per la salute, che se danneggiato può condizionare la vita intera: pensiamo alla cirrosi epatica, patologia grave che, spesso, si traduce in tumore. Ma non solo.
Un altro organo colpito dall’abuso di alcol è il cervello: l’alcol, così come le droghe, è una sostanza psicoattiva, capace cioè di modificare le funzioni cognitive di un soggetto, con tutto ciò che ne consegue. Ad esempio dal punto di vista dell’incidentalità: ad oggi gli incidenti stradali legati all’abuso di alcol rappresentano la prima causa di morte tra i giovani nella fascia d’età 18-24 anni. Giovani che sono tra i più esposti ai rischi derivanti dall’alcol”.
Per quale motivo?
“In giovane età, gli esseri umani non hanno ancora gli enzimi necessari per metabolizzare grandi quantità di alcol. Inoltre, come detto, l’alcol è una sostanza psicoattiva: nei più giovani, questo si traduce nella possibilità per queste sostanze di modificare alcune strutture cerebrali che non si sono ancora formate, interferendo con la adultizzazione del cervello. Un momento molto delicato, che l’alcol rischia di compromettere: per questo, il consumo di alcolici dovrebbe essere completamente vietato sotto i 16 anni. Oggi, invece, in media il primo contatto dei giovani con queste sostanze risale addirittura agli 11 anni”.
Perché è così diffuso l’uso di sostanze alcoliche?
“L’alcol ha delle caratteristiche che lo rendono estremamente appetibile. Innanzitutto produce, nell’immediato e in dosi contenute, effetti positivi: è in grado di abbassare l’ansia, attenua l’agitazione, tutti benefici amplificati soprattutto in un’epoca difficile come quella della pandemia. È facilmente reperibile, lo si può trovare ovunque senza alcuna difficoltà e, infine, è una sostanza legale, che non crea problemi dal punto di vista della censura sociale. Questo mix di elementi rende molto facile l’accesso all’uso dell’alcol. E sono proprio i suoi effetti positivi che, senza il necessario controllo, possono gradualmente far passare un soggetto dall’uso all’abuso. Il primo segnale sospetto è quando si crea l’effetto della tolleranza: cioè quando una persona, per ottenere le stesse sensazioni positive, è costretto ad alzare la quantità di alcol da assumere, finché non si beve più per ottenere un piacere ma per evitare un dispiacere. A quel punto si è in una condizione di dipendenza”.
Qual è il percorso di assistenza per le persone che soffrono di dipendenza da alcol?
“Il nostro approccio è quello di affrontare la situazione seguendo le persone in un percorso che non le porti ad avere paura dell’alcol. Non si deve spaventare il paziente, ad esempio sottolineando costantemente le conseguenze nocive dell’abuso, ma è fondamentale dare alle persone tutti gli strumenti necessari per prendere le decisioni migliori per la propria salute, in modo che la sostanza venga evitata per una scelta lucida del soggetto.
Autonoma e non imposta. Puntare tutto sulla paura è inefficace, perché una persona dipendente da una sostanza, se spaventata, sarà portata inevitabilmente a rifugiarsi proprio in quella sostanza per combattere la paura. Per questo si tratta di un percorso molto complesso e delicato: far smettere a un paziente di assumere alcol (che tendenzialmente è un processo abbastanza rapido, un paio di settimane) non significa averlo guarito, ma è solo il primo passo verso la soluzione. A quel punto, infatti, una persona dipendente che ha smesso di assumere una sostanza si troverà ad affrontarne l’assenza, un senso di vuoto difficile da gestire. Qui si interviene per far sì che la persona possa ritrovare il piacere, che prima trovava nella sostanza, in altre cose, fuori dall’alcol.
Quando la ricerca del piacere attraverso le sostanze diventa superflua, la persona può dirsi guarita.
Proprio per la sua complessità, e per il fatto che ogni paziente è diverso, è fondamentale fare rete con tutte le realtà del territorio che si occupano di questo tipo di fragilità, in modo da avere una possibilità di intervento e di prevenzione diffusa, anche e soprattutto sul sommerso”.