Coglieva l’attimo. Il ricordo dell’«illustratore» di Andrea Montemaggi
Chi avesse seguito, anche solo negli ultimi mesi, l’incredibile vicenda dell’Isola delle Rose e i suoi risvolti sulla stampa, o alcune riflessioni che hanno accompagnato Federico Fellini e il suo centenario, per non parlare dei flashback che riguardano Rimini e gran parte del suo Novecento, avrà sicuramente notato come a corredo di tanti articoli compaiano numerose immagini di Davide Minghini, il fotografo che più di tutti negli anni d’oro della città ha documentato la trasformazione di Rimini in città internazionale.
Di lui è stato scritto ( Davide Minghini – Fotografo in Rimini,
ad esempio, catalogo a cura di Oriana Maroni, edito dall’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna), sono state allestite mostre, si possono consultare gran parte delle fotografie che la vedova Tina ha donato alla Biblioteca “Gambalunga” (circa mezzo milione), la quale ha postato online gran parte delle immagini (https://scoprirete.biblioteche romagna.it).
Di questo “raccontatore per immagini”, anche ilPonte nei suoi (oltre) quarant’anni di vita ha spesso ospitato scatti e “impressioni” (che lo stesso fotografo regalava), a partire da un celebre set fotografico di Fellini al Grand Hotel, per arrivare a luoghi e soprattutto personaggi della città.
Un ritratto personale e originale del fotografo Minghini è pubblicato ora sulle pagine dell’ultimo numero della rivista Ariminum (edita proprio da ilPonte). Lo firma il condirettore stesso della rivista, Andrea Montemaggi, figlio di quell’Amedeo per anni capopagina della redazione riminese del “il Resto del Carlino”, ovvero il quotidiano per cui Minghini lavorava.
“La redazione riminese del ‘Carlino’ era in fondo la mia seconda casa, ove i miei genitori trascorrevano gran parte del loro tempo; racconta Montemaggi, nella foto con Minghini – Duilio Cavalli, Luigi Pasquini e, per un certo periodo, Gianni Bezzi, erano come zii che mi guardavano con quell’affetto con cui si tratta un nipotino curioso. Ma per me ‘Dino’, come noi tutti lo chiamavamo (‘Mingo’ sarebbe venuto molto dopo anche se per battuta qualcuno già lo battezzava in questo modo), era magico, creava immagini che si trasferivano misteriosamente dall’occhio alla carta”.
Fotocronista del “Carlino” dal dopoguerra fino alla scomparsa nel 1987, all’età di 72 anni, Minghini fu per quarant’anni il fotografo ufficiale di Rimini, e il primo fotografo a ritrarre la città dall’aeroplano agli inizia degli anni Trenta. L’ingente patrimonio lasciato dal fotografo ci consegna una documentazione vastissima sulla città e sugli aspetti spesso noti, ma anche curiosi o inediti ascrivibili al suo ruolo di capitale internazionale delle vacanze. Ma esiste anche il Minghini fotografo per sé, o per una ristretta cerchia di estimatori, fra i quali non mancava FF. Per Amarcord il fotografo riminese realizzò scatti di luoghi e di volti in città e ritratti dal set a Cinecittà.
Quello di Montemaggi è però un omaggio affettuoso, un ricordo personale “di chi fin dalla nascita l’ha conosciuto, l’ha osservato, l’ha apprezzato per le sue immagini”. Una visione sicuramente privata, “ammantata dal fascino del passato della propria infanzia che ispira, trasforma e rende eterea la figura
di chi non c’è più”.
Montemaggi ricorda quindi le apparizioni quasi furtive di Minghini in redazione, in piazza Cavour, “per consegnare il frutto della sua fatica giornaliera, con il sorriso celato sotto quei tipici baffi che, insieme all’abbondante brillantina, lo distinguevano già dal primo sguardo”. In altre occasioni, il rapporto era decisamente meno formale: “con il filobus d’estate raggiungevamo il negozio nell’attuale Piazzale Kennedy e trascorrevamo chiacchierando l’otium del riposo dopo l’ultimo invio del “fuori sacco” serale a Bologna. La sua macchina fotografica preferita, la Rolleiflex, per me era ancora più misteriosa: prosegue il racconto Montemaggi – aveva due occhi come uno strano mostro, si usava dall’alto, con la testa reclinata, inquadrava l’oggetto in un modo inconsueto e non direttamente e all’inesperto infante l’immagine del visore sembrava si spostasse sempre dalla parte opposta di quella desiderata”.
‘Dino’ era sempre pronto a scattare, inconsciamente orgoglioso di essere testimone di un particolare fatto. Fotografava tutti i giorni, quasi non ci fosse altra ragione di vita, quasi per scacciare l’involontario timore che, in una città in continua mutazione, il tempo passasse senza che lui avesse registrato lo status quo ante, ciò che era prima dell’ultima novità.
Iniziato ai misteri della fotografia dal padre Amedeo, Montemaggi jr ha poi esaminato criticamente gli scatti di Dino, definendolo “cogli l’attimo”: “come un tardivo epigono di Zenone di Elea, il filosofo della realtà immobile ed autore del famoso apologo di Achille e la tartaruga, Minghini era infatti impareggiabile nel riuscire a fermare l’attimo fuggente nel dinamismo della vita. Come da un film, che in fondo è una sequenza di fotogrammi, Dino estraeva istantanee dalla serie di eventi che caratterizzano l’esistenza umana”.
Non voleva astrarre il soggetto dall’ambiente in cui opera, convegno, ristorante, stanza o panorama che fosse. “Forse più che fotografo, Dino era un moderno illustratore”, lo definisce Montemaggi, in un’originale e creativa simbiosi con il cronista.
Come tutti i protagonisti di quel periodo storico chiamato “Rimini felix”, “Dino aveva una fiducia quasi illimitata nel progresso, era orgoglioso che il suo luogo natio da ‘borgo’ diventasse ‘città’. L’energia che era scaturita dalla ricostruzione non era solo frutto dei denari del Piano Marshall, ma dall’intima convinzione che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi”.
Tommaso Cevoli