“The game”, il gioco. Lo chiamano così i migranti provenienti da Afghanistan, Pakistan, Iraq e Siria che affrontano la rotta balcanica per arrivare in Europa.
Un gioco. Sembra quasi la trama di un film distopico. Di quelli ambientati in un futuro non troppo lontano in cui masse di poveri hanno pochissime possibilità di guadagnare un posto nel mondo dei benestanti.
E invece è la realtà. Cruda, orribile. Quella che emerge dalla testimonianza di chi, in queste settimane – ma in realtà da anni – vive gomito a gomito coi migranti nei campi profughi di Lipa, al confine tra la Bosnia Erzegovina e la Croazia, e negli altri campi del paese balcanico.
La nuova rotta è quella che ha preso piede da quando l’Ungheria ha chiuso e bloccato i confini. La città di Bihac e il campo di Lipa sono il collo di bottiglia da cui si deve passare per arrivare a destinazione.
In linea d’aria sono meno di 200 chilometri da Trieste. Il più sembra fatto. L’Europa è a portata di sguardo. Già la Croazia sarebbe Europa. Ma in realtà la meta è lontanissima.
“Lipa è la punta di un iceberg di un sistema di accoglienza problematico, ma sotto c’è di più – sostiene Daniele Bombardi responsabile di Caritas italiana per la Bosnia Erzegovina, che lo scorso giovedì 4 febbraio ha partecipato ad un incontro online insieme a Silvia Maraone, Ipsia Acli e Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale (l’incontro è visibile su YouTube dal titolo: Fratellanza umana: anche sulla rotta balcanica?) – oltre alle persone accolte a Lipa e negli altri campi della Bosnia sono migliaia quelle che cercano sistemazioni di fortuna, trovando ripari nei boschi oppure negli edifici abbandonati. Anche nei campi la situazione è al limite: i sistemi sono carenti e sovraffollati.
“La Bosnia è un paese che già faticava a garantire condizioni adeguate per le fasce più vulnerabili della popolazione, e ha ancora molta conflittualità a livello etnico. La migrazione è stato l’ultimo carico di fatica sociale in un sistema già molto fragile. Quando nel 2018 con la chiusura dell’Ungheria si è aperta questa variante della rotta balcanica, in Bosnia c’era un solo campo per richiedenti asilo con 140 posti, e sono cominciati ad arrivare 200 profughi al giorno. Il sistema è collassato subito”.
“Ad oggi – aggiunge Silvia Maraone – la situazione a Lipa è molto difficile. Dopo l’incendio del campo lo scorso 23 dicembre, le persone bloccate qui hanno dovuto arrangiarsi. Erano 1500, 600 sono riuscite ad andarsene, altre 900 sono rimaste lì. Per fortuna l’8 gennaio l’esercito bosniaco ha preso in carico la situazione e ha montato 30 tende militari con 30 brandine l’una, e si è passati da uno a due pasti al giorno.
“Le persone che si trovano lì sono tutti uomini e alcuni minori. Vengono principalmente da Afghanistan, Pakistan, Bangladesh e Iraq. I problemi qui sono strutturali. Il primo è il freddo, che viene affrontato senza vestiti e calzature adeguate, anche se adesso l’esercito ha portato dei cannoni che sparano aria calda, poi ci sono pochi bagni chimici, che gelano la notte e non vengono mai puliti. L’acqua è un grande problema. Sia quella potabile, che viene distribuita solo due volte al giorno, sia quella per lavarsi. Le fogne non reggono e per il resto ci sono solo due container con tre docce ciascuno che non sono assolutamente sufficienti per tutte le persone presenti.
“In questa situazione – continua Silvia Maraone – la metà delle persone ha cominciato a sviluppare sintomi di scabbia”.
Una situazione per certi versi in via di miglioramento, grazie anche all’intervento di Ipsia Acli e di Caritas e Caritas Ambrosiana.
“In questo momento – aggiunge Silvia – si sta spianando un terreno e versando ghiaia per montare refettorio, dove le persone potranno stare al coperto e al caldo per mangiare, e un luogo multifunzionale di socializzazione. Cerchiamo in ogni modo di supportare l’impegno del governo bosniaco, anche se in futuro questo campo di emergenza Lipa 2 è destinato a chiudere, per riaprire dove si trovano i resti di quello bruciato. Lipa 3 sarà allestito con container, fogne e tutto quello che serve per accogliere i migranti e dare loro riparo per l’inverno. C’era un campo a Bira ma è stato chiuso per le proteste della popolazione che non voleva migranti. Purtroppo i presidi antimigranti non mancano, e alcune volte c’è ostilità anche nei nostri confronti”.
Al momento in Bosnia ci sono circa 8mila persone, di queste 5mila si trovano nei campi ufficiali, mille a Lipa, e altre duemila accampate nei boschi e negli edifici abbandonati.
La situazione paradossale li porta a entrare in Europa già in Grecia, poi, però, da lì devono uscire dalla Comunità per cercare di rientrare al confine con la Croazia. Da qui puntano all’Italia, ma non sempre arrivare è sufficiente.
Anche l’Italia spesso li respinge senza valide motivazioni, a quel punto vengono rimandati in Slovenia, che a sua volta li rimanda in Croazia, e da qui tornano in Bosnia. I migranti si ritrovano così al punto di partenza, per di più senza soldi (spesi durante il viaggio), e alcune volte senza abiti e cellulari che vengono requisiti dalla polizia Croata.
“Il problema è grave – precisa Silvia Maraone – perché chiunque presenta una domanda di asilo dovrebbe vedere la sua domanda accolta, invece la polizia, anche italiana, fermava i migranti e gli faceva firmare fogli anche con l’inganno, senza mediatori culturali, senza tradizione, e poi questi si ritrovavano alla frontiera con la Slovenia. E da qui ricominciava il respingimento a catena”.
Nonostante tutto i tentativi di arrivare in Italia contnuano.
“Superato il confine con la Croazia – spiega Silvia Maraone – parte il taxi game, che costa tra i 4 e i 5mila euro a persona. Si sale su varie macchine e pulmini che si spostano per la zona fino ad arrivare ai confini con l’Italia. Chi non dispone di quella cifra, forma dei gruppi da un centinaio di persone che si muovono a piedi, passando per sentieri meno battuti. Questa modalità costa 7, 800 euro a persona. Il problema è che il territorio è pattugliato dalla polizia croata schierata con termocamere, sensori notturni e pattuglie a piedi con i cani. Alcune frange della polizia hanno un comportamento molto violento nei confronti dei migranti. Li fanno spogliare in mezzo ai boschi, li picchiano coi manganelli e li costringono a tornare in quelle condizioni in Bosnia. Ne vediamo tanti con segni e lividi di questo genere e ossa rotte”.
Ma cosa si può fare in questa situazione? Come si possono aiutare queste persone?
“Prima di tutto parlarne e informare – dice Daniele Bombardi – e poi, chi può e vuole, fare una donazione economica. Come Caritas e Ipsia Acli stiamo raccogliendo i fondi per aiuare la popolazione. Molti ci chiedono se è possibile mandare il materiale, ma ci sono parecchi problemi. Il primo è legato alla mancanza di magazzini e spazio per lo stoccaggio, poi al covid, per cui tutto deve essere sanificato. Inoltre, prendendo le cose qui possiamo aiutare l’economia del luogo e far vedere alle persone che i migranti possono essere anche un’opportunità. E infine c’è un problema sociale. Qui ci sono 900 persone e noi dobbiamo dare a tutti le stesse cose. Non possiamo distribuire cento coperte, altrimenti aumenterebbe la tensione e i problemi di convivenza”.